La lingua è senz’altro uno degli elementi più importanti di diversità individuale, territoriale e sociale. Tuttavia è anche un osservatorio utile a segnalare lasciti, prestiti, permanenze verbali che se da un lato la rendono meno pura dall’altro la mantengono – se usata in modo consapevole – vitale e importante sia nel parlato sia nello scritto, come intendono dimostrare i seguenti esempi proposti.
L’antichità del nome – Arni – è attestata da un’epigrafe umbro-etrusca ritrovata quasi trent’anni fa ai confini dell’Alta Valtiberina con il Casentino, esattamente a Toppole nelle vicinanze di Anghiari. L’importanza è invece testimoniata dal termine Arniesi con cui in un libro stampato a Venezia alla metà del secolo XVI continuavano ad essere chiamati i Toscani.
Ciò rimanda all’origine mitologica secondo cui Ercole (singolarmente il primo bronzetto rinvenuto nella favissa etrusca del Monte Falterona da cui il fiume prende l’avvio) spianò come un’arcaica e potente “autorità di bacino” le vallate intorno all’Arno riducendole all’alveo del fiume (Arna).
In realtà durante questa mitica e incessante opera di scavo in una buca vicino alla “fonte della pecora” (arne) la Terra aveva tentato di nascondere uno dei figli per sottrarlo alla voracità di Crono. Tentativo riuscito all’Arno che seguita a buttarsi quotidianamente in mare perpetuando – come l’uomo con la vita – l’irriducibile vanità della sua fine.
Nel suo antro la maga Circe, secondo i versi danteschi del Canto XIV del Purgatorio, avrebbe invece trasformato i Valdarnesi di allora in animali bruti e feroci. Incantati, come gli abitanti attuali di ogni altra «misera valle» degna di perire, dalle menzogne fitte e ronzanti (arnie) dei falsi “teleoracoli” d’oggi. Indifferenti ai rari e preziosi responsi distillati a caro prezzo dai poeti veri, unici indovini sicuri rimpiattati fra gli spigoli delle loro “celle di rigore” o negli anfratti delle loro buie miniere aurifere.
Ho sempre creduto che la parola in questione derivasse dal francese garçon (‘ragazzo’), da cui il medievale garzone o ‘giovane di bottega’. In realtà ganzo ha origini nel latino tardo gangia ‘meretrice’. Ciò spiega l’accezione spregiativa dei primordi di ganzo/a quale ‘amante’ così come del denominale ganzare ‘corteggiare dame’. Il fatto però che la sua genesi sia accostata al ganeum ‘bettola’ − luogo di desideri erotici quanto di piaceri enogastronomici − non esclude la permanenza fino ai nostri giorni di garçon come ‘cameriere’. Questo permette, dopo avere fissato le radici puttane del lemma, di sviluppare la seguente digressione “storico- sociologica”.
Se è vero che il significato disdicevole di ganza (a cui mai è stato avvicinato il corrispettivo maschile che anzi ha sempre mantenuto anche il senso di ‘uomo destro e scaltro’) è durato secoli non si può tuttavia scordare come esso abbia patito un duro colpo dopo la pubblicazione del romanzo di Victor Marguerite, La Garçonne appunto, nel 1922.
Il successo del libro infatti fu tale che contribuì a cambiare la licenziosità (ravvisata da alcuni nel lontano garganga dal mediorientale baldracca) in indipendenza, il disprezzo in emancipazione. Tanto da influenzare perfino i costumi della società uscita dalla prima guerra mondiale. Si pensi, per esempio, alla garçonniere che da ‘appartamento per scapolo’ divenne ‘femmina che si diverte con i maschi’. Oppure si rammenti, nel campo della moda tricologica, l’acconciatura “alla garçon” di cui è un esempio significativo il Ritratto della giornalista Sylvia von Harden di Otto Dix.
Per capire bene questa parola occorre rifarsi ad altre derivanti tutte dalla medesima radice grammaticale e quindi scaturite ognuna dall’identica fonte etimologica.
Incomincio considerando il verbo sverzare poiché la sua duplice accezione è fondamentale per comprendere appieno sverza. Tale verbo indica sia l’azione di ‘produrre schegge’, sia quella di provvedere con esse a riparare, a ‘turare i danni’ da loro stesse più o meno direttamente causati. Magari ripagandoli con le sverze, cioè le monete del dialetto fiorentino spese in letteratura, per esempio, da Pratolini («Mi basterebbero cinquecento sverze» disse).
‘Voce’ popolare come lo sverzino che, essendo uno spago aggiunto alla frusta, offriva ai barrocciai la possibilità di raggiungere obbiettivi distanti e di colpire, schioccando, bersagli altrimenti irraggiungibili per tutti come gli anni che avanzano scemando. Talvolta battuti dalla verza, antico e raro termine indicante la verga che talora li percuote e spesso sferza. Proprio come la scrittura da vergare su poche righe che i fili in ottone della vergella provvedono già a setacciare nella vergatura dei fogli di carta fatta dalle stesse mani che poi tentano avidamente e ambiziosamente di segnarla.
Il testo presente (sunto e adattamento di un altro più ampio e informativo) è un contributo al dibattito sulla relazione fra la materia prima (la lingua italiana) e il prodotto finito (la letteratura italiana).