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Fiabe

La maggior parte delle fiabe qui presenti risalgono ai primi anni della mia fatica di maestro elementare e quasi tutte, comprese le più rare seguenti, hanno un’impronta didattica più o meno esplicita.

La piazza pazza

    Anni fa nel bel mezzo di un paese c’era una piazza tutta rotonda. Era una piazza importante, piena di palazzi, case e negozi. Ma un giorno incominciava improvvisamente a cambiare riempiendosi di pomodoro qua, di mozzarella là, di aglio qui e là. Subito dopo iniziava a fumare prima di stendersi sopra un enorme piatto sotto di essa. Poi principiava a sorvolare, come un appetitoso tappeto volante, tutte le strade del paese rincorsa da migliaia di bocche spalancate. Ma volava tanto velocemente che anche i più bravi saltatori cittadini non riuscivano ad addentarla.

 

    D’un tratto, però, smetteva di fumare cominciando a volteggiare sul piatto. Così, a poco a poco, il pomodoro si asciugava, la mozzarella si rassodava e l’aglio spariva chissà dove. Quindi, seguitando a trasformarsi, diventava lucidissima e nera e, girando lentamente intorno alla bocca del suo pozzo antico, cominciava a diffondere nell’aria una musica così bella che presto tutti, anche gli affamati più incalliti, si mettevano zitti ad ascoltare.

 

Il cavallo e il gigante

La copertina e la controcopertina qui riprodotte fanno parte del manoscritto originale della seguente "fiaba illustrata".         

 

 

Cavallo1   Cavallo2

 

 

Andrea

Questa brevissima fiaba, nata da un’occasione familiare, è frutto di un gioco verbale.

Essa ha testi e illustrazioni costruiti, cioè, sulle lettere del nome del protagonista intestatario del titolo della storia.

 

 

Andrea1   Andrea2  Andrea7

 

 

 

Piero dal Borgo

    Attorno al 1474 il pittore Piero dal Borgo (meglio noto come Piero Della Francesca) arriva a cavallo a Urbino, allora una delle più importanti “città in forma di palazzo” d’Europa. Il cavaliere attraversa al passo la piazza, ora vuota ma di solito occupata dai banchi del mercato come un tempo l’agorà greca, il foro romano, il mercatale medievale e rinascimentale o il mercato di oggi.

    Alla fine della piazza Piero entra a cavallo nel torrione. Qui incomincia a risalire la grande “scala a chiocciola” sui gradoni della quale rimbombano gli zoccoli del cavallo finché il pittore non smonta di sella e lascia il destriero nelle scuderie. Numerose ed ampie come tutti i vasti sotterranei del Palazzo dove fra grida, richiami e schiamazzi continui i servi di ritorno dal mercatale si mischiano con quelli che vanno e vengono dalle cucine alla niviera (o ghiacciaia).

    Piero della Francesca sale ora a piedi la rampa e quando arriva in cima si trova di fronte i Torricini del Palazzo Ducale che gli suscitano un improvviso ricordo. Con la risalita in mezzo a loro degli “archi di trionfo”– di marmo come quelli visti insieme a tante statue a Roma – gli rammentano la lancia che in una giostra ha spaccato il naso e accecato l’occhio destro di Federico da Montefeltro. Il duca che lo sta aspettando nella “Sala delle Udienze” e nella quale poco dopo schiude davanti agli occhi del pittore il “libro” del DITTICO DEI DUCHI D’URBINO dipinto dallo stesso Piero della Francesca qualche anno prima.

    Più tardi l’artista toscano e il signore urbinate si spostano nello “Studiolo” in cui Piero presenta al duca il suo trattato sulla prospettiva (De prospectiva pingendi), poi ascolta la proposta di lavoro di Federico. Mentre lo ascolta Piero della Francesca l’osserva con attenzione, così come guarda con ammirazione, quando il duca smette di parlare, il piccolo raffinato ambiente nel quale si trovano seduti. Ed è proprio dalle decorazioni delle tarsie in legno, dalla malinconia di Federico, e soprattutto dal rimpianto per la moglie morta partorendo il figlio Guidobaldo, su cui il duca ripone tante speranze, che Piero rimane particolarmente colpito.

    Un’impressione così forte da ispirargli l’ultima Madonna (meglio conosciuta come PALA DI BRERA) dipinta alla corte ducale. Probabilmente un estremo ritratto di Battista Sforza con in grembo il figlio dormiente – vegliato dal padre armato e in ginocchio pregante – al quale il pittore di San Sepolcro dedicherà il suo ultimo trattato sulla geometria (Libellus de quinque corporibus regolaribus). Forse anche per ringraziare il nobile coetaneo del bimbo che più tardi lo porterà per mano quando negli ultimi anni della sua vita diventerà quasi cieco.