Il pagliaccio

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La presente scheda d’interpretazione critica si basa sulla lettura e lo studio del volume seguente: T. Mann, racconti, A. Mondadori, Milano 1978, £ 2.500.  
 
 L’impianto della novella Il pagliaccio (1897) – raccontata in prima persona dal narratore protagonista – è composto di una “collana” di quattordici “perle” o paragrafi, introdotti e conclusi dalla pagina di un prologo tanto serrato quanto è stringente la mezza pagina dell’epilogo. Fra l’altro entrambi sono richiamati – o collegati proprio come elementi di gancio di un vezzo – dal medesimo atto decisivo, significativamente marcato dalla stessa parola (prima “A conclusione… il disgusto” e poi “Smetto… che disgusto!”). Inoltre sono uniti anche da una sottile e cruda “coincidenza degli opposti” secondo cui la felicità della vita potrebbe scaturire da un’indifferenza tanto cinica quanto la condanna a vivere sarebbe sostenuta, sempre a parere del protagonista narratore, da un’impudente ridicolaggine.
 
  A dire il vero tale calcolata corrispondenza dei contrari sembra sciogliersi in una momentanea e manifesta concordanza fra pari (“Non… bisogna”… “Temo… dormire”), destinata a sboccare alla fine in un tacito urlo di profonda mestizia (“Gran Dio!... tale condanna”), come a dissolversi al principio nel ventre ampio e accogliente del bisogno di scrivere (“e per trovare… consolante necessità”). Un conforto che poco dopo si fonde nella struggente amarezza del malinconico rimpianto espresso nel primo periodo (“Com’è… sono cresciuto!”) con il quale l’autore dà contemporaneo avvio al paragrafo iniziale e alla narrazione della prima parte della vita del protagonista del racconto.
 
  […] Inizi ben caratterizzati che dal quarto paragrafo contengono – svolti con esemplare concisione e magistrale compiutezza narrativa – i temi principali del racconto. A cominciare dalla stima borghese dell’artista considerato alla stregua di un istrione o di un pagliaccio e, al contempo, depositario di passioni inconfessabili e delle più segrete aspirazioni. Sempre oggetto comunque di quelle altrui e mai soggetto delle proprie («Solo, io avevo pensato molte volte, e in un certo senso anche sperato, che potesse diventare un artista»). A maggior ragione quindi disponibile, complici i primi anni giovanili, a qualsiasi mutamento che in quanto tale non può che apparire per forza attraente («La prospettiva… eccitante»). Ma anche essere del tutto epidermico per non esaurire le forze del protagonista né soffocare i suoi interessi più profondi e veri («Quanto a me… mi riempiva tutto»), paradossalmente cullati e nutriti da uno stato di precarietà in fondo benaccetto poiché gli permette di vivere il presente senza smettere di prefigurare il futuro.

  […] Avvenire talmente differito che il decimo paragrafo si apre («Un altro giorno è finito») e si chiude in modo fatalmente simile («Ma tutto ciò si ripeteva… nel corso dei mesi e degli anni»). Un’era interminabile la cui indifferenza il narratore protagonista tenta di scalfire con gli scalpelli usati di tormentosi dilemmi filosofici che all’inizio paiono scolpire soltanto la sua rassegnazione alla liturgia giornaliera delle scansioni del tempo. […] In realtà tali triboli dubbiosi si confondono nei reiterati tremori di un latente e inguaribile senso di colpa che senza risolversi concorre a rendere invece un po’ troppo concettosa la seconda metà del paragrafo, tanto più che è inclusa e si avviluppa fra un principio («in questo momento… impareggiabili») e una fine che condividono («Certamente… ancora») la medesima, semplice e comune attesa di un benevolo auspicio («un conforto»).
 
 […] Un’attesa benigna inopinatamente finita nello sboccio di un miracoloso “autunno primaverile” con la descrizione del quale il narratore dà inizio all’undicesimo paragrafo che più sotto – e non a caso in un paesaggio familiare oltre che in un’atmosfera amica – regala quel diversivo tanto invocato, quella svolta decisiva a lungo inseguita. Una “scena madre” che, per dove e come si svolge, non ha nulla di magniloquente («Ma quando… lasciarla passare») ma è subito pregna d’importanza e foriera di sviluppi certo significativi («Mi trassi da parte e mi fermai»), compresi i preparativi utili all’epilogo de Il pagliaccio ideato da Thomas Mann.

 […] Una meta alla cui conquista il protagonista si approssima affilando tutte le frecce possibili («Freschezza… fortunato!»), e perfino risibili («E… avvicinarla»), a disposizione del suo arco. Senza accorgersi – ma forse non potendo fare a meno di prevedere – che il bersaglio non avrebbe potuto essere che lui stesso. Quando, giungendo all’ambito traguardo, la sua imbelle dappocaggine si sarebbe definitivamente mutata, con la banalità di una richiesta ridicola («Un bicchier di vino, per favore»), nella tremenda sconfitta di un’irrimediabile buffonaggine. […] Come sembra suggellare la fine della novella che – accennata al principio di questa scheda – conviene trascrivere per intero in chiusura di uno scritto d’interpretazione letteraria il quale, come ogni testo critico, non può fare che “da spalla” all’opera d’arte. Sia essa liberata dall’autore confesso sia espiata dall’incolpevole personaggio o istrione principale («Chi avrebbe mai pensato, chi avrebbe potuto pensare che nascere pagliaccio fosse una tale iattura, una tale condanna!»).