• Stampa
La muta è la prima delle storie inserite nella raccolta intitolata Tre racconti che, pubblicata la prima volta nel 1964, ho letto nella prima edizione del febbraio 1990 della Biblioteca Universale Rizzoli (B.U.R.) con l’Introduzione di Carlo Bo. Tale racconto è suddiviso nella canonica tripartizione di prologo, svolgimento ed epilogo scandita dai numeri romani in testa a ognuna delle suddette tre parti. Inoltre esso ha un andamento per così dire “anulare” secondo cui ciascun inizio sbocca e risuona nella conclusione di ogni singolo paragrafo. Non solo ma l'incipit del racconto si ripete, quasi identico, nel suo finale.
 
[…] Incomincio dal prologo. Come ho accennato sopra, le parole con cui esso si apre [“Vengono… vengono”] e si chiude [“Odo passi qui fuori”] sono quasi uguali. Diversa, invece, è la conclusione delle prime [“Ma se non vengono verranno, questo è certo, ineluttabile”] e la domanda delle seconde [“mi lasceranno tempo?”]. Eppure ambedue comprendono il senso della vita e lo stato dell’uomo in essa. Un significato e una condizione, cioè, compresi e racchiusi fra l’ineludibilità della sentenza e la durata incerta della sua esecuzione. E fin qui nulla di nuovo sull’angosciante miseria del destino umano. Un’agghiacciante universalità che però Landolfi tenta d’incrinare, come spesso gli accade, in modo paradossale quanto attraente.

 […] Questa contraddizione si prolunga per qualche pagina [“mentre gli altri possono sperare, seguendo un certo corso naturale, di morire tra molti anni, io questo non posso sperarlo in nessuna maniera”] e si ripete in forme variate in parecchi brani [“finirò col morire, anche senza aver trovato il modo per farlo; io però disperato, disperato, e loro non sempre”]. Un’antinomia che sembra risolversi solo quando, quasi al termine del prologo, il protagonista disvela la ragione della sua condanna a morte. In realtà tale soluzione è solo apparente giacché la rivelazione innesca un’altra serie d’inquietanti e non meno importanti interrogativi di cui è necessario seguire il corso per non perdere di mira l’oggetto dell’interpretazione critica (lo sviluppo del testo) e rischiare di mancarne il vero bersaglio esegetico (la valutazione del valore letterario).

 […] Per fortuna ci pensa Landolfi ad allontanare, almeno per il momento, questa insidia fin dal principio del secondo paragrafo del racconto. Lo svolgimento si apre e prosegue, infatti, con una descrizione della quindicenne nella quale Landolfi sprigiona tutta la gamma delle sue doti narrative di cui […] prova geniale è il racconto dell’avvenuto successo (l’incontro fra il maschio adulto e la giovane femmina) in presenza di una perdita (il mutismo della fanciulla) di cui il dialogo esaspera la gravità senza però eliminarne le silenti risorse.

 […] Da qui lo svolgimento ha una specie di improvvisa accelerazione. Una svolta che punta l’interesse dei nuovamente stringenti pensieri proprio sulla menomazione della ragazzina e che talora investono, sferzandolo con ratte e terribili scudisciate interrogative [“che serve parlare, scambiare frasi vuote colla gente? […] È attraverso la parola, il cosiddetto dono della favella, che l’uomo perde l’anima sua,”], l’intero genere umano. Accusato per giunta di non reggere il confronto con i libri, quindi la sfida con il valore della lettura [“A te che manca? Tu odi, tu vedi, tu puoi leggere: […] non è quello un colloquio, una conversazione con qualcuno, e di quanto più degno?”] e l’importanza della scrittura.
 
 […] In realtà la scrittura pare avere un estremo guizzo dopo la consumazione del primo amplesso fra i due protagonisti.[…] Tuttavia la stessa fiamma che incendia l’uomo adulto lo isola dal corpo fanciullesco che la alimenta. Una distanza […] destinata a sciogliersi e a dissolversi tragicamente e d’un tratto come un fulmineo colpo di lama non molto diversa da quella usata dall’assassino innamorato contro la sua vittima che lo condannerà all’incomprensibile e tormentosa felicità eterna di cui si domanderà e aspetterà termine nell’epilogo.

 [...] Breve paragrafo finale in cui il condannato a vivere per morire […] può tutt’al più confessare […] la “menzogna” non di non aver fatto quel che ha detto bensì di averlo colpevolmente narrato. […] Un sussulto che non può opporre nulla ai sicari sconosciuti della vita o ai noti esecutori del presente dei quali sono incerti solo i tempi del loro avvento sicuro. Anzi, sembra amplificare e suggellare l’eco delle parole che lo richiamano [“Vengono; vengono. No, non vengono ancora. Ma se non vengono verranno”] e concludono, (quasi gemelle, come ho scritto in avvio, di quelle dell’incipit) il racconto. Uno dei più dostoevskijani di Landolfi, autore di cui già Italo Calvino aveva tentato, curando nel 1982 una scelta delle sue pagine migliori, di rimuovere lo stato di «scrittore senza lettori» senza scalfirne il ruolo di «profeta del nulla» affermati da Bo nell’Introduzione citata all’inizio di questa scheda critica.