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Gentile Lettore,

se fosse stato per l’anomia della sigla N.B. (suppongo anagrafica) non avrei risposto nemmeno privatamente. Se invece lo faccio in questa sede pubblica è per ringraziarLa, delle attenzioni rivolte a IL CONGEDO e per alcune interpretazioni che non condivido.

Certamente ha ragione quando afferma che i primi due racconti danno “una lettura a senso unico dei rapporti umani” (quale fatale destino umano non lo è!). È talmente vero che allargherei un simile giudizio a tutto il mio lavoro letterario. Del resto non potrebbe essere diversamente giacché ogni mio scritto narra di un tempo presente (e non già di una “SOCIETÀ” di principio, se non un po’ astratta come quella a cui sembra alludere Lei), tanto profondamente egemone quanto vistosamente falso da dover rivendicare l’inevitabile, esclusiva appartenenza ad esso di quel che scrivo. Questo è, secondo me, il vero e tragico paradosso.

Un’assurdità capitale dagli effetti più disparati e micidiali. Specialmente sull’uomo che, già ridotto all’insignificanza globale, non avendo fedi da custodire né speranze da coltivare, tenti l’ultima legittima difesa. Quella di mantenersi in vita sopportando (in uno sforzo tremendo, ma irriducibile, non certo inferiore alla “forza o… voglia di confrontarci”) gli assedi dell’unico bisognoso desiderio che riconosce a sé e agli altri: l’autenticità dell’esistenza.

Per questo l’uomo de IL MESSAGGERO «sebbene con il setaccio del tempo si fosse reso conto di non avere più nulla da spartire con nessuno, non aveva mai ceduto alle lusinghe e alle insidie dell’isolamento. Lo testimoniavano i tentativi intensi e ripetuti, ancorché vani, fatti nel corso degli anni per allargare e approfondire il più possibile i rapporti umani. O almeno per mantenere le relazioni preziose con i pochi con cui valeva la pena… (p. 23)».

Di conseguenza il rifiuto con il quale reagisce l’uomo nell’epilogo de LO SFRATTO è tutt’altro che un atto d’indifferenza o non violenza bensì una denuncia feroce della perdita d’identità umana («Non so da dove venite»), peraltro ribadita come un’implacabile accusa subito dopo («ma so chi siete») nella consapevolezza di appartenere alla stessa specie. Genìa di cui l’uomo sa di non far più parte e alla quale può opporre soltanto un guizzo estremo di debole quanto fiera, inutile ma necessaria difesa («‘e non vi riconosco’ tirandosi con un ultimo strattone la coperta sul viso per non vederli»).

Sauro Largiuni

13 X 2014