Testoscopie

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(analisi di campioni narrativi)

    L’obbiettivo di questo scritto è quello di mettere in evidenza gli elementi portanti dei racconti de IL CONGEDO tali da giustificare che per quello che racconto va bene come lo scrivo. Tuttavia perché la forma (lo stile) sia coerente al contenuto (l’idea) della narrazione occorre soddisfare due requisiti che sono anche, al contempo, gli obiettivi da raggiungere.

   Comincio quindi con il primo – il ritmo della pagina – per l’illustrazione del quale mi avvarrò di metafore tratte dal gergo ciclistico. Ovviamente potrei fare diversi esempi seminati nel trittico ma, per necessità di sintesi e pur violando il tessuto connettivo della narrazione, mi limito ad alcuni estratti dalla prima pagina de IL MESSAGGERO [“L’uomo era tornato a lavorare dopo una lunga assenza per una malattia che ne aveva minacciato seriamente la salute. Appariva quindi impaziente di comunicare agli altri la decisione presa”].

   A un ‘prologo’ breve e pianeggiante [“L’uomo era tornato a lavorare dopo una lunga assenza per una malattia che ne aveva minacciato seriamente la salute”] segue uno ‘strappo’ al cui culmine c’è un traguardo tanto atteso quanto interlocutorio [“Appariva quindi impaziente di comunicare agli altri la decisione presa”] e purtroppo mancato. Un fallimento da cui prende immediato avvio una discesa [“Ma negli uffici del palazzo tutti sembravano pensare solo alle vacanze ormai prossime e nessuno pareva badare a lui”].

   Una china contraddistinta da ampi tornanti [“Fra i corridoi e le stanze del grattacielo di vetro e acciaio branchi d’individui, sigillati e sciamanti nelle loro teche pregne d’aria condizionata, sembravano impegnati soltanto a mischiarsi o a scansarsi”] che paiono attenuare la pendenza [“Ognuno aveva in braccio sempre qualcosa da riporre e ordinare. E anche chi l’aveva già fatto era pronto per andare a prendere o spostare qualcos’ altro”]. Curve larghe che non riescono però a frenare la velocità precipite dell’uomo [“Non ora… più tardi” e “Adesso non ho tempo. Dopo, se mi aspetti… forse”]. Almeno finché egli non approda nella piana della rassegnazione [“Ben presto, quindi, l’uomo aveva smesso d’insistere. Non solo ma dopo qualche silenziosa rinuncia e più di una pausa appartata aveva principiato a fare tutto come gli altri”]. Una landa solitaria e isolante che egli decide, comunque, di percorrere sino in fondo. Perfino con uno scatto di fugace orgoglio [“pur cercando di compierlo da solo. Come se, non potendo scansarlo, volesse almeno evitare in ogni modo la fretta e le aspettative vacanziere che parevano animare gl’intenti e le azioni di tutti”].

   Un guizzo di fierezza che richiama quello, ben più ardito e sdegnoso, con cui si conclude LO SFRATTO e che utilizzerò più sotto come esempio di fusione dei due aspetti essenziali del narrare. Ed è proprio terminando qui di trattare il primo che vorrei iniziare a esporre il secondo – la visionarietà del racconto – attingendo invece da un passo de IL RECINTO. Il brano in questione va da p. 42 (riga 3) fino a p. 43 (riga. 8).

   [“Così, lungo il corridoio che separava la camera dalla cucina, aveva deciso d’incominciare a farlo proprio da quella mattina. Per questo, forse, appena giunto nel piccolo locale dove aveva acceso la luce al neon aveva tenuto più bassa del solito la fiamma del gas per ritardare la fuoriuscita dell’espresso.

   Ma quando il caffè aveva preso a scolare allagando la macchinetta l’uomo – che stava già per tirare su la tapparella – aveva sentito anche da quella parte delle voci al di là della finestra. Perciò per essere sicuro di quello che lo aveva sorpreso e subito inquietato aveva immediatamente spento il gas e, a poco a poco, messo a tacere il mormorio del caffè. Quindi, ritraendo le dita dal pulsante che azionava l’avvolgibile, seguendo le sbandate del fumo uscente dal bricco, accostando la fronte ai vetri diacci e appannati aveva potuto udire un fitto grumo di voci indistinte. Mentre tra le fessure delle poche stecche rimaste schiuse riusciva a scorgere la sagoma netta, scura, invadente il cortile accosto, di un camion sul cui rimorchio lentamente rialzato avevano iniziato a scendere tanti pali di ferro.

   Scivolando uno dopo l’altro sulla lamiera, ora scavalcandosi ora sovrapponendosi, i loro cozzi stridenti parevano infilarsi fra le costole e lo sguardo dell’uomo che, non riuscendo a capire cosa stesse accadendo pur subendone gli effetti che lo costringevano a guardare, non riusciva più a muoversi e ad allontanarsi dalla finestra. Almeno fin quando non era comparsa – sbucata tra la siepe e affogata in una tuta bianca – la figura di un individuo massiccio che a pochi metri da lui aveva incominciato a piantare, stringendolo fra le enormi dita dei guanti di cuoio, uno dei pali di ferro nel suolo del cortile. E ad esso, tonfando colpi irregolari, ne seguivano molti altri. Tutti perfettamente conficcati secondo un ordine stabilito, ben allineati in fila a qualche passo dalla finestra.”].

   Nelle righe iniziali (3/14) sono riassunti i dati sensoriali (visivi [“corridoio… luce… fiamma”], olfattivi [“espresso… caffè”], tattili [“dita… fronte”], uditivi [“cozzi… colpi”]) che contribuiscono a rendere visionaria la narrazione. Ad alimentare cioè – talora perfino intrecciandosi fra loro [“diacci… appannati”] – l’inquietudine montante dalla trasformazione, lenta e implacabile, della consueta realtà giornaliera nel reiterato e insolito tragico quotidiano di papiniana memoria.

   Una metamorfosi in atto segnalata o confermata da avvisaglie minime [“aveva sentito anche da quella parte delle voci al di là della finestra”]. Una trasformazione amplificata da azioni comuni rese invadenti dalla loro simultaneità [“scolare allagando”] ma anche scandita da gesti incuriositi e preoccupati [“stava già per tirare su la tapparella”]. Veri e propri scarti che sono di ostacolo alla verità [“per essere sicuro di quello che lo aveva sorpreso e subito inquietato”]. Impulsi che l’uomo prova a frenare [“spento il gas e, a poco a poco, messo a tacere il mormorio del caffè”], anche se non può fare a meno d’inseguirne le tracce più varie [“ritraendo le dita dal pulsante che azionava l’avvolgibile, seguendo le sbandate del fumo uscente dal bricco, accostando la fronte ai vetri diacci e appannati aveva potuto udire un fitto grumo di voci indistinte”]. Fino alla scoperta della realtà – o meglio – alla rivelazione della verità quale «dono della certezza che uccide» [“Mentre tra le fessure delle poche stecche rimaste schiuse riusciva a scorgere la sagoma netta, scura, invadente il cortile accosto, di un camion sul cui rimorchio lentamente rialzato avevano iniziato a scendere tanti pali di ferro.”].

   Scadenza inesorabile come la vita e bersaglio estremo dell’odierno mondo capitale concentrati in trenta righe suddivise (tornando per un momento alla questione del ritmo della pagina) in due nuclei isomeri di cui le quindici righe del primo fungono da preludio alle successive del secondo. Blocco indicativo, peraltro, dell’avvento improvviso e incontrastato di chi presiede alla manovra [“Almeno fin quando non era comparsa – sbucata tra la siepe e affogata in una tuta bianca – la figura di un individuo massiccio che a pochi metri da lui aveva incominciato a piantare, stringendolo fra le enormi dita dei guanti di cuoio, uno dei pali di ferro nel suolo del cortile.”]. E sopra tutto del modo con cui si procede alla spietata e inflessibile esecuzione dei lavori [“Tutti perfettamente conficcati secondo un ordine stabilito, ben allineati in fila a qualche passo dalla finestra”].

   Concludo trattando della concordanza – ineludibile per qualsiasi testo narrativo riuscito – fra i due aspetti fin qui descritti. Di conseguenza, come anticipato più sopra, prendo ad esempio LO SFRATTO e, per l’esattezza, le ultime 16 righe della pagina 65.

   [“Prima che fosse notte gran parte del quartiere appariva conquistato. Ma era notte fonda quando l’uomo – seduto nella poltrona alla vetrata con una coperta addosso – aveva capito che anche gli edifici del suo isolato erano stati definitivamente occupati. Non era poi giunta ancora la prima luce del giorno quando egli – scosso dai rimbombi di una sequela di saracinesche – sentiva una corsa fitta, confusa e rumorosa, di passi per le scale subito spanti, con grida e tonfi, in tutti i ballatoi del palazzo. Fino al suo dove, di lì a poco, anche il suo uscio era stato abbattuto dalla furia dei nuovi arrivati.

“Non so da dove venite ma so chi siete…” li aveva accolti affondando nella poltrona e stringendo il plaid “e non vi riconosco” tirandosi con un ultimo strattone la coperta sul viso per non vederli.”].

   Nelle prime 12 si ripete in pratica lo schema suddetto. Tuttavia in esse l’incalzare dell’epilogo è accentuato dalla soluzione di descrivere in modo talmente ravvicinato i passaggi della notte – in cui si susseguono “le conquiste” – da far sembrare raccorciati anche i tempi. Ma è sopra tutto nelle tre righe finali che si manifesta in maniera efficacemente succinta la fusione di ritmo e visionarietà indispensabile alla credibilità del racconto. [“Non so da dove venite”], frase che pare tradire un’incertezza che è invece una denuncia (la perdita d’identità umana), fra l’altro dichiarata – oltre che ribadita e intensificata dalla congiunzione avversativa – subito dopo [“ma so chi siete”] nella consapevolezza di appartenere alla stessa specie.

   Genìa di cui l’uomo sa di non far più parte e alla quale può opporre – in un gesto simile eppure diverso sia dalla tragica delusione di Giulio Cesare sia dall’ennesimo adattamento di Hamm – soltanto un sussulto estremo di debole quanto fiera e tragica difesa [“«e non vi riconosco» tirandosi con un ultimo strattone la coperta sul viso per non vederli”]. Un sobbalzo echeggiante perfino, quale mesto epilogo però dello stato presente dell’uomo, l’esortazione della nota terzina dantesca: «Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza» (Inferno XXVI, v.v. 118/120).

2005 VIII 25