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Parole

(relazione al convegno La scuola come luogo d’incontro di lingue e culture)

   Vivo di parole ma non ci campo. Tuttavia le conosco abbastanza per sapere che s’incontrano quasi sempre infischiandosene della scuola. Tanti sarebbero gli esempi ma qui ho scelto, ricollegandomi al tema trattato da chi mi ha appena preceduto, zuccotto e moscato. 

   La prima parola – zuccotto – designa, come si sa, un dolce «a forma di calotta» o, per così dire, simile alla parte apicale della zucca (dalla quale prende di sicuro origine) ma anche, se ci sostiene l’immaginazione necessaria, a una capanna. Forse proprio una di quelle che gli Ebrei in fuga dall’Egitto costruirono in mezzo al deserto e la cui festa (Succà/Succoth) celebrano fra settembre e ottobre. Magari con qualche dolce «semifreddo […], fatto di uno strato esterno di pasta margherita e di un ripieno a base di panna e di piccoli pezzetti di canditi e di cioccolato», come recita il Vocabolario della Lingua Italiana dell’Istituto Enciclopedico Italiano, vol. IV, p. 1285.

   Per quanto riguarda invece la seconda parola – moscato – essa ci conferma come «i nomi delle cose che si mangiano (o si bevono) sono spesso fantasiosi e arguti. […] Nel Ticino si preparava la torta di mosch, una torta di pane cosparsa di uva sultanina, per cui la superficie sembrava tutta cosparsa di mosche».

   “Ditteri” dagli acini dolci, scuri come coloro i quali l’hanno introdotta anticamente (zibibbo, dall’arabo zabib), visti oggi come fumo negli occhi da gran parte degli abitanti di quella zona. “Legaioli” per lo più ignari o immemori, come troppi italiani, che il vitigno (moscato) delle terre limitrofe di cui amano anch’essi tracannare il vino non è altro che una variante del moscatello, cioè dello zibibbo. Ma forse è proprio per tenere lontani dai chicchi succosi di queste floride viti i sempre più fitti, insistenti mosconi (nome fra l’altro di natanti vacanzieri, veri e propri panfili rispetto alle loro arche clandestine) che essi vorrebbero solo carte geografiche moschicide.

   Comunque sia mi pare accertata, almeno a livello lessicale, una certa contiguità fra alcune culture. Allora domando.

1) Le lingue e le civiltà fecondatesi a vicenda sugli “argini” del Mediterraneo cos’hanno da spartire, se non la liberazione dal nazismo di un tempo, con l’angloamericanizzazione oggi imperante?

2) Volendo fornire una lingua strumentale ad alunni extracomunitari perché nella scuola primaria italiana si sottraggono loro ore d’Italiano di cui hanno urgente bisogno per regalargli ore d’Inglese di cui non hanno stringente necessità?

3) Che si voglia ancora una volta spacciare per democrazia la demagogia di cui genitori e insegnanti risultino poi, nel migliore e più raro dei casi, i ricettatori inconsapevoli?

   Naturalmente mi attendo risposte illuminanti e convincenti da chi potrà e vorrà darle. Certo la tendenza incontrastata e globale a complicare le cose più semplici – quindi difficili da perseguire e realizzare – lascia ormai pochi, se non nulli o insignificanti spiragli.

2004 XI 08