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Esecuzioni

(da premessa)

Qualche tempo fa l’autore m’inviò una lettera nella quale annunciava di aver scritto una breve «opera mobile», intitolata soggiorni, di cui la stessa missiva sarebbe stata l’introduzione che io avrei dovuto far precedere, se fossi stato d’accordo, da una stringata avvertenza. Impegno che assolsi nella convinzione che sarebbe stato il mio personale contributo a un’opera narrativa singolare e, come si dichiarava nella lettera, «sicuramente definitiva e irripetibile».

Invece Sauro Largiuni fu bugiardo allora e, per fortuna, mente anche adesso. Perché? Evidentemente il sortilegio di una tale menzogna non ha esaurito i suoi effetti. Di conseguenza l’autore non ha ancora soddisfatto il bisogno né smesso d’inseguire il desiderio di «mostrare come uno scrittore, contando su pochi e preziosi “materiali di base”, possa adoperarli e modellarli per creare – come un lievito il cibo o le scintille un falò – forme di racconto nuove, differenti fra loro eppure interconnesse e al contempo perfettamente autonome.»

Se questa è l’idea quel che conta non è certo la sua pur dichiarata “motivazione didattica” bensì come Largiuni l’ha sviluppata e risolta nella pratica della forma letteraria. Una valutazione che non può prescindere dai rischi di virtuosistica serialità assunti e corsi dall’autore e dei quali egli era perfettamente consapevole fin dalla lettera suddetta. Tuttavia nel lavoro precedente i pericoli erano tutto sommato calcolati o perlomeno ridotti giacché l’esercizio letterario s’è svolto sì su un’esile corda sospesa in aria (affine forse non a caso a quella del funambolo del marchio del Centro e delle Edizioni Larmon) ma pur sempre al di sopra e con la garanzia della “rete di sicurezza” del genere novellistico […].

Qui [invece] Sauro Largiuni è cosciente di correre uno dei rischi maggiori del lavoro. Quello d’inserire nell’ultimo racconto (la soluzione) un palese elemento autobiografico (peraltro compensato dalla comparsa del deuteragonista) che potrebbe in un primo momento distrarre il lettore meno accorto e poi fuorviarlo dal nocciolo della questione, dal tema centrale dell’opera: l’odio del mondo presente e l’amore della vita dispersa. Un conflitto che fortunatamente nell’autore continua ad attizzare le braci della sua passione letteraria, mentre dei suoi personaggi sembra bruciare finanche gli ultimi tizzoni di energie di cui egli è chiamato a raccogliere e conservare nelle urne delle sue pagine le preziose ceneri.

Ecco, per concludere, esecuzioni forse non è altro che un rito letterario d’incenerazione con il quale l’autore, evocando quelli dei suoi amati Etruschi, c’invita a custodire e mantenere la lucidità e l’attenzione necessarie a vivere realmente. Un autentico atto di coraggio indispensabile per resistere alla dissipazione umana in corso («Per questo mi trattengo ancora un po’ sulla terra: perdonatemelo!», diceva appunto lo Zarathustra nietzschiano) affinché persino la fine, quando giungerà, abbia rispetto delle nostre ferite e possa accoglierci vivi. Ovvero né superflui né vinti ma sani perché rei e liberi d’intendere e di volere sia il dolore che il nulla infiniti.

Peter Sagen

 

(da la soluzione)

I

«… nella speranza quindi di averLe fatto piacere (lo stesso provato da chi ha avuto il privilegio di assistere alla messa in scena), descrivendo come meglio ho potuto le azioni degli attori e le reazioni del pubblico presente, a nome di tutti La ringrazio e saluto».

Prima di riporla lo scrittore rileggeva la lettera spedita la settimana precedente. In essa il primario della clinica psichiatrica nella quale l’anno prima sua moglie si era suicidata lo informava del successo ottenuto dalla sua “operetta teatrale” tra i ricoverati e il personale. Infatti la cosiddetta “filodrammatica dei matti”, volendo ricordare la sua compagna come «la gentile signora amica di ognuno di loro», aveva deciso di rappresentare nel teatrino della clinica l’ultimo suo dramma rifiutato da tutti i teatri a cui l’aveva proposto.

A dire il vero, sulle prime, lo scrittore non ricordava nulla. Tanto meno di aver lasciato una copia del lavoro al “capocomico” per ringraziarlo sia della schiva premura avuta nei riguardi di sua moglie sia delle piacevoli ore passate a discutere con lui, ex attore un tempo non sconosciuto. Proprio come si sentiva adesso lui che, dovendo a dei “folli” l’unico riconoscimento professionale, non riusciva a trattenere un amaro sorriso o una smorfia rabbiosa in un angolo della bocca lievemente serrata.

Lentamente lo scrittore ripiegava la lettera. Quindi la rinfilava pian piano nella busta, quasi a seppellirvi le riflessioni finali sull’intera sua opera rimasta pressoché ignota e causa non ultima della malattia della moglie. Infine appoggiava da una parte la busta con la lettera ripigliando a scrivere dal punto in cui si era fermato il giorno avanti. Ma, di lì a qualche minuto, il suono del telefono lo sorprendeva su una frase che avrebbe dato finalmente chiarezza di forma e peso di contenuto al pensiero a lungo rimuginato. Costretto a interrompersi rispondeva malvolentieri.

«Scusi se la disturbo, dottore»

«Non sono dottore! Lei chi è? Cosa vuole?»

«Ha perfettamente ragione. Mi presento immediatamente e, se avrà la pazienza di ascoltarmi, le dirò anche quello che ho da offrirle»

«D’accordo… sa, quando lavoro ho sempre i nervi tesi… mi scusi e dica pure»

«Lei non si deve scusare. Conosco bene gli artisti, so come sono fatti e quanto acuta sia la loro sensibilità. Dunque, lei non mi conosce ma io sono il maggiore impresario teatrale della città. Ebbene la circostanza di aver provveduto gratuitamente − per ragioni che credo non le interessino e non ho quindi bisogno di spiegarle − all’attrezzatura e all’allestimento necessari mi ha permesso di fare una fortunata scoperta. Quella di assistere nella casa di cura alla rappresentazione, seppur amatoriale, del suo dramma»

«Non vorrà, spero, felicitarsi del successo riscosso dal mio lavoro in un manicomio mentre, nel corso degli anni, troppi direttori di teatro non hanno neppure risposto al copione inviato»

«È appunto questo il motivo della mia telefonata. Riparare a un imperdonabile errore visto che l’offesa da lei subita è sicuramente irrimediabile»

«Come lei saprà a volte il rimedio è peggiore del male»

«Comprendo la sua diffidenza. È legittima ma è destinata, mi auguro, a sparire dopo la domanda seguente. Vuole collaborare alla messa in scena del suo dramma nel più importante teatro cittadino?»

«Adesso, se permette, mi pare sia lei a voler trasformare la mia cautela in sua personale e pericolosa incoscienza»

«Può darsi. Non ha risposto però alla mia domanda. Capisco che essa l’abbia colto di sorpresa e quindi lei abbia bisogno, probabilmente, di un po’ di tempo per pensarci. O, forse,» in tono improvvisamente più deciso e indugiando volutamente «le manca il coraggio di rispondere sì o no?»

 

«Se non lo avessi non continuerei né a vivere né a scrivere…» tradendo una brusca incertezza o un lampo di lucida chiarezza «a meno che tutto non sia un’assurda ostinazione»
 

«Mi scusi ma lei non mi sta dicendo cose nuove. Anzi, sebbene sia sempre interessante ascoltarle, mi sembra servano sopra tutto a lei per rinviare la risposta. Sbaglio?»

«Soltanto in parte. In realtà vorrei davvero riflettere meglio sulla sua proposta del tutto inattesa ma di sicuro allettante»

«Bene, facciamo così. Quando lei sarà pronto mi telefoni comunque e se la sua decisione sarà quella che spero fisseremo un incontro nel mio ufficio. D’accordo?» «Sì… grazie e arrivederci» schiacciando il pulsante e inserendo nella rubrica del suo telefono il numero dell’impresario teatrale.


   Il giorno seguente l’appuntamento fissato per telefono lo scrittore si fermava a lungo davanti alla vetrata d’ingresso del Teatro Comunale. Soltanto diversi minuti dopo si spostava verso l’ascensore esterno per salire nell’ufficio all’ultimo piano del grattacielo. Un’ascensione che pareva riunire in sé le sue speranze finalmente ravvivate ma anche l’occasione fortuita di risalire a poco a poco, attraverso la panoramica cabina di vetro, la città natale. Di vederla montare lentamente sulla sua testa e pian piano abbassarsi inesorabilmente sotto di lui fino ad averla ai suoi piedi già dopo il primo spettacolo.


   Per la verità questa sognante eccitazione si raffreddava non appena giungeva al cospetto dell’impresario. Questi, infatti, lo accoglieva restando seduto e distante dietro la sua grande scrivania. Sopra tutto gli rivolgeva subito parole ben più prudenti di quelle spese nella telefonata di presentazione. Insomma, non volendo «bruciare l’opera e deludere le aspettative del pubblico», gli proponeva una specie di tournée di rodaggio in alcuni teatri di provincia con una compagnia di «onesti e seri professionisti». Così se “fiasco” doveva essere che almeno avvenisse lontano dalla città. Meglio rimetterci soldi in “piazze” quasi sconosciute piuttosto che la faccia nel “tempio” della drammaturgia cittadina perché allora l’insuccesso avrebbe avuto risonanza nazionale ed internazionale.


   Lo scrittore ci restava molto male. Tuttavia cercava di valutare velocemente i vantaggi che il breve giro in provincia poteva offrire. Per esempio la possibilità di migliorare ogni sera i meccanismi della messa in scena e la recitazione degli attori. Alla fine però avevano avuto la meglio il bisogno e la voglia di mettersi in gioco: fosse stata anche l’ultima volta. Di conseguenza, poiché la posta in palio era alta occorreva che il campo in cui si sarebbe svolta la partita decisiva fosse altrettanto prestigioso. Perciò lo scrittore rilanciava («o nel Teatro Comunale o nulla») e l’impresario, dopo aver fatto a sua volta rapidi calcoli e considerati i tempi indispensabili all’allestimento, finiva per accettare e sottoscrivere l’accordo.