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Vacanze

(da la sonata)

Per rammentare meglio la serenità della villeggiatura trascorsa fra i monti l’uomo aveva scelto di onorarla facendo l’ultimo giorno una passeggiata più lunga del solito. […]

Quando arrivava in cima l’uomo aveva una sgradita sorpresa. Su un cartello di legno − appeso alla porta su cui rintoccava ad ogni refolo − qualcuno aveva inciso l’avviso che il rifugio era chiuso. Stanco e deluso egli, risalendo i pochi scalini di pietra battuti con il suo bastone da montagna, si sedeva sull’asse della panchina sotto la veranda.

Steso sulle cosce il bastone, l’uomo si guardava intorno. […] D’un tratto però l’attenzione della vista lasciava il posto allo stupore dell’orecchio. Sorpreso e subito attratto dal suono inatteso di un pianoforte proveniente dal secondo piano sigillato della baita chiusa.

A dire il vero d’acchito era rimasto talmente sbalordito che credeva di avere sentito soltanto qualche esercizio o studio di accordi. Quando invece, dopo un breve silenzio, udiva l’avvio della sonata conosciuta s’accomodava nella panchina pronto ad ascoltare volentieri, seppure a distanza e all’aria aperta, il primo movimento. Il maestoso con le battute iniziali del quale il pianista sembrava cercare non solo chi fosse là a sentirlo ma sopra tutto chiedere a questi di rivelargli chi realmente fosse lui.

Tuttavia simili richieste affidate alla musica di una burrascosa lotta interiore costringevano anche l’uomo − salito al rifugio con ben altre intenzioni − a riflettere sulla propria miseria umana scandita e persino accentuata dalle note gravi del pianissimo che a poco a poco pareva insinuargli uno stato di assillante oppressione. Un’attesa incombente come quella del temporale che, nonostante fosse distante e quindi non si capisse se stesse avvicinandosi o allontanandosi, creava in lui una tensione evidente. Un presagio inquietante di cui egli s’aspettava la fine solo quando sarebbe terminato lo scontro, violento e teso come il principio appena incominciato dell’allegro, dei lampi e dei tuoni sgorganti intensi fiotti di pioggia.

Contrariamente a lui l’interprete continuava invece la sua appassionata sfida musicale. Anzi, incurante di qualsiasi tempesta esterna egli a un certo punto sembrava placare gli accordi più impetuosi. E proprio come se avesse conquistato la vetta della sonata s’arrestava concludendone con brio sereno il primo tempo.

L’uomo riapriva gli occhi. Non sapeva però se gustare il piacere della musica ascoltata o arginare ancora di più la voglia di sapere chi ne fosse l’esecutore. Ma visto che la pausa si prolungava si rizzava dalla panchina e, pur sbandando qualche passo per le membra rattrappite, avanzava lentamente verso la porta sulla quale, di lì a poco, bussava timidamente con la punta del bastone.[…]

Con una manata serrava anche l’ultima persiana rimettendosi quindi a sedere. Ed era appena finita l’eco del colpo che lo sconosciuto pianista dava inizio al secondo movimento della sonata. Una ripresa alla quale l’uomo s’abbandonava ad occhi chiusi. Senza piegare la testa ma disposto ad accettare la sconfitta in cambio di simili note di cui seguitava a restargli ignota la fonte. Del resto adesso ciò che tornava ad essere importante era soltanto quella musica tanto semplice, normale ed innocente da regalargli un’inaspettata quanto profonda e gioiosa quiete interiore.

Una tregua improvvisa che gli sembrava dilatarsi all’infinito nonostante la caduta inesorabile del giorno. Come se i raggi finali del sole volessero carezzare la fronte calante della luce abbracciata dal vespro imminente. Un abbraccio consueto che le prime terzine dell’arietta parevano rendere lieve e dolce, tanto da far sembrare la sera a galla nell’aria imbrunita di un tempo misteriosamente immobile. Ed era forse per questo che poi le spire dei pianissimi potevano mutare e avvolgere pian piano quella malinconica e sognante stretta sonora in una ineffabile eppur ferrea morsa.


   Una trappola micidiale a cui neanche l’uomo sfuggiva. Nemmeno quando, scattando le ganasce della tagliola al sublime trillo finale della sonata, era libero di alzarsi e di abbandonare nel silenzio la baita. Prigioniero però, appena qualche passo dopo, dell’impulso che l’obbligava prima ad arrestarsi e poi a voltarsi guardando al secondo piano dove − al di là delle imposte ora aperte − la debole luce di una lampada illuminava la stanza.


   Per la verità l’uomo avrebbe atteso volentieri che l’interprete l’avesse spenta perché solo così l’avrebbe scoperto. Ma forse, se è vero che spesso tutto accade prima che giunga in fondo, non ce n’era bisogno. D’altra parte il sopravvento del buio serale lo spronava a riprendere il cammino. E proprio lungo il sentiero che lo riportava in paese egli si sorprendeva, soffermandosi più di una volta a guardarsi in giro per esserne sicuro, a ripensare alla fortuna di essere stato l’unico testimone della sonata che più gli piaceva.

Più tardi però questo privilegio si trasformava stranamente in un insistente presagio di commiato. […]

Al risveglio scendeva dal letto e, sebbene intorpidito dal sonno, andava alla finestra di cui dopo aver aperto le persiane richiudeva subito i vetri. […]

Non comprendendo quel che accadeva ma presagendo che presto l’avrebbe riguardato l’uomo, levandosi lesto dalla finestra, raggiungeva il bagno dal quale usciva poco dopo per vestirsi alla svelta. Non faceva in tempo, però, a sistemarsi bene il giaccone che sentiva bussare forte, un paio di volte, all’uscio. Apriva trovandosi davanti due figuri.


   «Sei il solo ad avere ascoltato e goduto la sonata,» gli comunicava con distaccata fermezza quello che pareva il capo «non puoi essere che tu il colpevole della morte del suo esecutore impiccato» concludeva lasciandolo senza respiro.


   «Voltati!» comandava l’altro artigliando le sue braccia «Seguici, senza resistere» legando con lo stesso laccio il collo e le mani, strette alla schiena, del prigioniero condannato per ciò che aveva più amato nella vita.

(da POSTFAZIONE di Peter Sagen)

In vacanze, come in condanne, i protagonisti sono eletti condannati alla pena. Ma se nel racconto iniziale il primo è condannato per ciò che conosce e lo appassiona, nel racconto successivo il secondo lo è a causa di quel che ricorda e, forse, sopra tutto per ciò che non riconosce e sembra rifuggire.


   In altri termini ne
la sonata la fortuna (parola chiave se intesa nel suo significato arcaico) dell’unico testimone, mutando nell’inquietante presagio del congedo, favorisce la trasformazione del privilegio in castigo. Con ciò introducendo la possibilità assurda − ma oggi a più riprese colpevolmente realizzata − di far sì che una rara e preziosa qualità (la sensibilità musicale) diventi un difetto grave. Una colpa talmente imperdonabile da rendere la profonda complicità fra chi esegue e chi ascolta non soltanto la prova d’accusa più importante ma addirittura la motivazione principale del trattenimento di chi ha avuto la ventura di ascoltare e il piacere di godere di ciò che ha sentito.


   Una punizione che ne
la feria il protagonista ha il sospetto di subire, in forma di rivalsa nei confronti del suo rigore professionale, fin dall’inizio. Un possibile castigo al quale egli tenta candidamente di sfuggire prendendosi la responsabilità di un giorno di vacanza dal lavoro. Tale decisione si rivela però non solo ingenua ma, come una miccia all’apparenza innocua, innesca un processo di cui risulta essere in fondo l’aggravante maggiore.