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Condanne

(da nota introduttiva)


    Sebbene rimanga convinto dell’importanza secondaria dei fatti autobiografici ai fini della stesura di una storia inventata non posso certo escludere che essi possano essere opportunità di narrazione.
Come per questi due racconti inseriti all’inizio nella raccolta TEMPO CAPITALE e solo in seguito congiunti nel dittico presente per le ragioni spiegate più sotto.

Nel caso de l’assenza tutto si è messo in circolo a seguito di un’accusa inattesa e ingiusta che mi ha fatto masticare amaro di cui, però, ho saputo trasformare i veleni orali in antidoti scritti. Per quanto riguarda invece l’appello gli spunti sono due. Il primo risale al racconto – ascoltato alla radio – di un ebreo deportato e destinato alla “soluzione finale” in un campo di sterminio. Secondo tale testimonianza radiofonica il momento più atteso e temuto era quello nel quale, al risveglio, veniva fatto l’appello dei prigionieri al centro del piazzale. L’altro spunto scaturisce dalla forte impressione che ricevo e subisco ogni volta che assisto a imponenti, “oceanici” e incontrollabili raduni di folla. Un turbamento intenso e profondo che negli ultimi tempi, ossessivamente favorito dai mass-media, ha avuto modo di manifestarsi più volte. Fino a innescare, fondendosi alla storia dell’ebreo, la miccia del racconto.

In ogni modo poiché i temi delle accuse, delle sentenze (primo titolo provvisorio del dittico) e delle pene scontate, caratterizzano entrambi i racconti ecco la ragione per la quale li ho riuniti in CONDANNE.

(da L'APPELLO)

    Alla fine l’uomo aveva ricevuto la chiamata. Era stato scelto e adesso aspettava soltanto che lo schermo del computer si spengesse in un estremo e sonoro sussulto.

    Tuttavia per rispondere all’appello e prendere parte alla selezione egli doveva salire su un treno con cui viaggiare tutta la notte e il mattino successivo. Così alle prime ombre della sera usciva di casa diretto verso la stazione ferroviaria da raggiungere con la metropolitana dove, però, fin dalla prima fermata si accorgeva che dalle porte lentamente schiuse non scendeva mai nessuno. Tanti, invece, salivano lesti sia per trovare posto nelle carrozze via via più affollate sia per scansare le chiusure dei battenti che scattavano fulminei come non si volesse dare ad alcuno il tempo di ripensarci e scendere.

Pertanto al capolinea della stazione la folla sboccata dai vagoni del metrò avanzava, sciamando e scartando nella galleria del sottopassaggio lucente di vetrine e insegne, risuonante di richiami e pregno di odori che solo in fondo parevano evadere – subito fermati dalla luce naturale a cui si mischiavano – da un’ampia falla del soffitto. Una specie di véra attraverso la quale l’aria aperta sembrava risucchiarli. Proprio come l’uomo e gli altri dalla zona delle partenze, anticipata sulla sinistra dai gradini di una scala mobile e a destra da un tappeto scorrevole su una pedana di cemento armato leggermente inclinata.

 

Qualche minuto più tardi l’uomo arrivava – quasi sospinto dagli altri sempre più smaniosi di arrivare alle pensiline – sotto il “pozzo” oltre la cui bocca svettava all’imbrunire la fronte di un grattacielo in vetro e acciaio. Una stele mozza cui nessuno, a dire il vero, pareva badare. Almeno finché tutti, attratti dagli avvisi degli altoparlanti, dal rumore dei treni e dal chiasso dei viaggiatori echeggianti di sopra, non conquistavano l’atrio arrestandosi davanti alla sua parete più alta ed estesa. Al di sotto della grande coppia di neri tabelloni elettronici sui quali sigle e cifre sembravano divorarsi e inseguirsi di continuo come quel che baluginava al sole o spariva nell’ombra traversanti di sbieco il grattacielo che, ora intero, sovrastava la stazione ferroviaria. […]

 

Ben presto l’uomo, guardandosi intorno dalla poltroncina a lui riservata, si rendeva conto che fra i passeggeri non c’era più nessuno di quelli conosciuti in treno. E ciò pareva gettargli il cuore in gola mentre un brivido di freddo traversava il corpo e la mano diaccia la fronte sudata. Com’era possibile che gli smistamenti ai quali ognuno era stato sottoposto potessero essere tanto importanti se tutti erano destinati sempre e comunque allo stesso posto? Fra l’altro anche quelli che erano ora sull’autobus parlavano e si muovevano come coloro i quali erano stati suoi compagni in treno. E questo, in fondo, anche se non lo rassicurava sembrava almeno quietarlo un po’. D’altra parte di lì a poco la sua attenzione – favorita dallo sguardo che riprendeva a guardare fuori – si fissava sulla graduale e costante riduzione del traffico cittadino. Finché non capiva che ogni autobus dagli scuri vetri “a specchio” era diretto verso la periferia. […] solo dopo ore di cammino – passate a sentire attorno discorsi ancora fiduciosi e a vedere sfilare nella libera corsia accosto uomini e mezzi del servizio d’ordine – egli giungeva con molti altri fin quasi in fondo. Là dove la strada sboccava declinando nell’ampio piazzale in cui posava, come il guscio vuoto di una gigantesca conchiglia abbandonata in una vasta buca poco profonda, il nuovo grande stadio.

Arena nei pressi della quale l’uomo e la folla arrestavano la loro marcia interminabile solo nel pomeriggio già inoltrato. Quando le ombre serali si sdraiavano ormai nello smisurato piazzale, quasi a far da tappeto d’onore alle file di persone che – spartite in lunghi corridoi transennati conclusi da grossi cancelli di ferro – erano indirizzate e vegliate agli accessi da picchetti di guardiani dai caschi iridescenti e le divise inviolabili. Sentinelle che al di là delle inferriate si facevano coppia davanti al paio di colonne in cemento armato reggenti le venticinque tettoie degl’ingressi. Larghe tese sulle cui fronti strette erano stampate sia lo scarlatto numero romano sia la nera serie cifrata dei posti di ogni settore delle tribune. Ampie valve schiuse che gli aitanti scaloni separavano di netto, prima affilandosi rasentandone il fianco, poi scalando e facendo a spicchi il cielo.

 

Al tramonto anche l’uomo, mescolato alla sua torma, incominciava a salire come tutti la scala del settore assegnato. Soltanto là ognuno avrebbe avuto la certezza di ricongiungersi davvero e per sempre agli altri. Solo su quelle gradinate che smettevano di riempirsi unicamente quando il buio ormai vincente – celebrato finanche dal rintocco di campane distanti – era stracciato dall’improvviso accendersi della corona lucente dei riflettori e dal pulsare di scritte sul tabellone elettronico [...].