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Sverze

(da lettere a peter)

[…] questo il senso dei testi che scriverò, salute permettendo, nell’ultima fase della mia attività letteraria: righe di parole concentrate in pochi rari fogli. Di conseguenza SVERZE non può che essere il titolo di una serie di racconti brevissimi (una o due pagine al massimo) da scrivere […] quando cioè smetterò, come sai, ogni ambizione editoriale tuffandomi e rigirandomi nel vizio dei piaceri e nella condanna delle pene di tali rossiniani “peccati di vecchiaia”. […] In ogni caso, lo ripeto, costituiranno di sicuro […] lo scopo e l’impegno esclusivo della mia produzione finale a cui in effetti, forse esorcizzando o prevedendo il suo immortale anonimato, ho già dato il via. Alcune sverze infatti le ho già scritte. Te ne mando, qui di seguito, un paio che potranno esserti utili a comprendere meglio ciò che credo possa interessarti maggiormente, cioè le loro ragioni, le loro forme e i loro esiti narrativi.

2012 VIII 07 

l’astante


   Nulla l’aveva mai attratto, eppure tutto gli era diventato tanto insopportabile da poterlo rovinare. Così quando si era accorto che non avrebbe più potuto avvicinarsi s’era allontanato.

   Pochi giorni dopo passava già la maggior parte del suo tempo seduto in una poltrona accanto alla finestra del suo appartamento. Un modesto alloggio che, sottostante la soffitta di uno dei palazzi più vecchi della città, si affacciava sulla piazza centrale sempre piena di gente che vi affluiva dalla raggiera delle strade vicine. In questo modo poteva godere – protetto dalla fragile e invalicabile barriera dei vetri – la vista di tutti da una posizione privilegiata. E sopra tutto vantaggiosa giacché gli evitava di stare in mezzo a loro con i quali, nonostante i ripetuti e strenui sforzi, non riusciva più a vivere insieme.

  
Qualche settimana più tardi egli era capace dall’alto non solo d’intuire in anticipo le intenzioni e i gesti di tutti ma di capire le ragioni comuni per cui ogni persona raggiungeva, in modi diversi ma assecondando il medesimo disegno, la piazza. Un’attrazione irresistibile a lui ignota che però con il passare dei giorni gli diventava sempre meno indifferente poiché altro non era che un momento della vita che lui aveva tentato di tenere a debita distanza per controllarla meglio e salvaguardarla dai morsi e dalle zampate del mondo.

Attacchi feroci e sinistri che nei mesi seguenti non tardavano purtroppo ad arrivare sfregiando alla svelta l’incanto del suo sguardo alla finestra. Anche perché al primo ne succedevano altri simili, fino a quello di un giovane legato al portone del municipio e trafitto dai coltelli di uno o più sicari che causava l’immediata chiusura notturna della piazza ma anche, a poco a poco, il suo inevitabile e definitivo abbandono diurno.

La piazza era deserta da tempo quando l’uomo – che aveva schiuso spesso i vetri per sentire almeno all’alba l’eco lontana di una voce familiare o di sera quella di un rumore conosciuto – vedeva avanzare sopra i tetti il lungo braccio di una gru. Una trave poderosa che in prossimità del palazzo oscillava un paio di volte prima di penetrare, squarciando la finestra e l’uomo sorpreso davanti ad essa, nell’appartamento sventrandolo.

La polvere della breccia non faceva in tempo a disperdersi e a confondersi nell’aria grigia del giorno che il palazzo, come fosse bastato quel forte ma unico colpo, crollava piano dopo piano. Quasi ad ogni rintocco di campana della chiesa e subito spandendo e ruzzolando rapidamente le macerie nella piazza, finalmente liberata come molte altre zone della città che l’astante non aveva voluto vedere né ricordare.

 

l’uditore

La prossima fine a lui ignota la trascorreva nella certezza della lunga convalescenza a letto. Qui passava gran parte della giornata a leggere libri e a sentire – di là dai vetri della finestra a fianco – le voci chiassose e insolute di fuori. Irruzioni sfacciate e incontenibili che insieme alla luce filtrata dai vetri invadevano senza ritegno la camera, sbaragliavano senza tregua l’attrazione silente delle frasi lette, espugnavano infine senza pietà il campo eloquente delle parole scritte.

Ad ogni modo quelle scorrerie, nonostante l’iniziale stonatura con il riserbo delle mute pagine scorse, gli donavano a poco a poco un’insolita vaga contentezza scordata dalla giovinezza. Una piacevole vaghezza goduta volentieri forse anche perché quell’erranti continue schegge di voci, spesso indistinte o appena comprensibili, erano pur sempre parte di tutto ciò che avrebbe potuto riascoltare quando – espiata la pena della cura e della guarigione finalmente raggiunta – sarebbe evaso dalle mura di casa per essere subito ripreso dalla guardia della vita cittadina. Una prigionia della cui libertà si rendeva pienamente conto solo da quando il male gliel’aveva sottratta.

A dire il vero, però, quel che udiva ora dal suo letto erano mozzi dialoghi lungo la via sgombra dai veicoli e spezzoni di monologhi telefonici nei marciapiedi sconnessi. Del resto nel suo stato attuale non poteva certo pretendere di più se non quei lembi e stracci di discorsi, uniche vele di una rotta che non appena possibile avrebbe riavviato e condotto, grazie alle nuove fresche energie, non solo con più lena ma puntando orizzonti più lontani a tutti sconosciuti.

Purtroppo con il passare dei giorni gli scampoli dei dialoghi stradali intercettati dal letto si diradavano fino a sparire lasciando via libera e dominio assoluto ai solipsistici colloqui, talora intermittenti talaltra distesi, che annidati nei telefoni cellulari si dilatavano a dismisura. Indiscreti monologhi spesso strillati che gli apparivano ridicoli e forzati giacché vogliosi d’imporsi unicamente a chi, pur presente e vicino, era considerato soltanto un estraneo.

Un’altra settimana passava – durante la quale aveva davvero sperato di rimettersi definitivamente in forze – e la supremazia delle parole sentite ai “cellulari” diventava, come un invincibile contagio, totale e assoluta. A tal punto da fargli credere non solo di avere sognato, nel torpore causato dalle medicine, la frase udita improvvisamente un giorno sotto la sua finestra («Crede sempre di guarire e di vivere ancora») ma anche da farlo dubitare che essa potesse riguardare proprio lui.

In realtà i suoi fiduciosi dubbi nulla sembravano potere contro simili dispotiche certezze alle quali egli non poteva di sicuro opporre il privilegio di udire senza la possibilità di vedere. Perciò, nonostante si sentisse molto debole, non poteva continuare a rimanere chiuso in casa. Anche perché capiva che l’invadenza di ciò che gli capitava di ascoltare era talmente schiacciante e impudica da diventare ogni giorno più insopportabile mettendo così in serio pericolo non solo il ricupero completo del suo corpo ma addirittura l’integrità e la durata della sua salute. Pertanto, non sentendosi troppo sicuro di sé, attendeva l’ora migliore per aprire la porta al mondo e uscire in mezzo ad esso tentando di passare più inosservato possibile a chi avesse voluto approfittare della sua evidente debolezza proprio nel momento di maggior traffico umano della città. Obbiettivo verso cui puntava camminando con passo lento e malsicuro fino all’angolo che, svoltandolo e sparendo alla vista casa sua, immetteva nella grande piazza del centro. Qui la folla dei presenti – convinta che ormai egli sapesse troppo e non volendo aspettare che lo portasse per sempre con sé – gli si stringeva poco a poco intorno sino a spingere tutti a soffocarlo in un abbraccio ben diverso da quello desiderato da lui.