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Il congedo

(da il messaggero)

L’uomo era tornato a lavorare dopo lunga assenza per una malattia che ne aveva minacciato seriamente la salute. Appariva quindi impaziente di comunicare agli altri la decisione presa. Ma negli uffici del palazzo tutti sembravano pensare solo alle vacanze ormai prossime e nessuno pareva badare a lui fra i corridoi e le stanze del grattacielo di vetro e acciaio.

Ognuno aveva in braccio sempre qualcosa da riporre e ordinare. E anche chi l’aveva già fatto era pronto per andare a prendere o spostare qualcos’altro.

Ben presto, quindi, l'uomo aveva principiato a fare tutto come gli altri, pur cercando di compierlo il più possibile da solo. Come se, non potendo scansarlo, volesse almeno evitare in ogni modo la fretta e le aspettative vacanziere che parevano animare gl'intenti e le azioni di tutti.

Mai come in quel momento forse anche per la serietà di quel che non riusciva a dire si era sentito tanto estraneo quanto inetto a confessare agli altri ciò che doveva […]

(da il recinto)

[…] Quando il caffè aveva preso a scolare allagando la macchinetta l’uomo aveva sentito anche da quella parte delle voci al di là della finestra. Perciò aveva spento il gas e messo a tacere il mormorio del caffè. Quindi, accostando la fronte ai vetri diacci e appannati, aveva potuto udire un fitto grumo di voci indistinte. Mentre tra le fessure delle poche stecche rimaste schiuse riusciva a scorgere la sagoma netta… invadente… di un camion.

Scivolando sulla lamiera del rimorchio i pali di ferro parevano infilarsi fra le costole e lo sguardo dell'uomo che non riusciva più a muoversi e ad allontanarsi dalla finestra. Almeno fin quando non era comparsa sbucata tra la siepe e affogata in una tuta bianca la figura di un individuo massiccio che a pochi metri da lui aveva incominciato a piantare uno dei pali di ferro nel cortile. E ad esso, tonfando colpi irregolari, ne seguivano molti altri. Tutti perfettamente conficcati secondo un ordine stabilito, ben allineati in fila a qualche passo dalla finestra.

Ormai era chiaro, sebbene non riuscisse a intuirne la ragione, cosa si stesse facendo intorno all'appartamento: un recinto.

Una barriera che all'improvviso gli appariva nettamente più forte e inviolabile di tutti i congegni che aveva fatto installare […]

(da lo sfratto)

[…] La pioggia era durata tutta la mattina. Ma era smessa da poco quando l’automobile aveva incominciato la sua marcia regolare fra le vie e gli slarghi dell’immenso quartiere abbandonato nei dintorni della città. Anzi, via via che avanzava sembrava andare più piano per non confondere gli annunci diffusi dai suoi altoparlanti sopra il tettuccio. Veri e propri avvisi finali ripetuti a chi fosse rimasto i cui echi parevano sfinire dietro l’auto che si allontanava.

Un silenzio lungo e distante era seguito allo sparire dell’automobile e al dissolversi delle parole degli altoparlanti. Nulla sembrava poterne contrastare il predominio. Almeno fino a quando non sarebbero scoppiate le cariche di esplosivo che, schiantando e ammorbando l’aria, avrebbero fatto saltare e abbattuto il quartiere. Improvvisi rintocchi di passi però lo infrangevano. Prima lesti e di un individuo soltanto quindi, man mano fitti e veloci, di altri che scappavano nei corridoi dei piani di ogni edificio.
 

Prima che fosse notte gran parte del quartiere appariva conquistato. Ma era notte fonda quando l’uomo – seduto nella poltrona alla vetrata con una coperta addosso – aveva capito che anche gli edifici del suo isolato erano stati definitivamente occupati. Non era poi giunta ancora la prima luce del giorno quando sentiva una corsa fitta, confusa e rumorosa, in tutti i ballatoi del palazzo. Fino al suo dove, di lì a poco, anche il suo uscio era stato abbattuto dalla furia dei nuovi arrivati.

«Non so da dove venite ma so chi siete… e non vi riconosco» li aveva accolti affondando nella poltrona e tirandosi, con un ultimo strattone, la coperta sul viso per non vederli.