(estratti dal racconto)
1
Lo sfregio d’aereo nel cielo di latta stava ormai risarcendo quando l’eco dell’ultimo tonfo della palla ferrata penzoloni al cavo della gru sfiniva l’aria. Scossa dai vanni degli uccelli volati via dal cornicione del palazzo abbattuto tra le cui macerie s’aggiravano razzolando uomini e cani ai cui vocii e latrati accorrevano altri che non esitavano ad aggredire chiunque per farsi largo o a scacciare i più temerari per mantenere la posizione.
Ma mentre il grosso del branco seguitava ad avventarsi sui cumuli dal bunker sotterraneo spuntavano le nerolucenti automobili blindate che, sgorgando una dopo l’altra dalla penombra di cemento armato, accompagnavano il tutore fuori dalla città.
Un congedo forzato con il quale avrebbe dovuto riparare, secondo gli accordi presi con la giunta, alla sconfitta risarcendo tutti con i tesori – di cui molti sapevano senza però conoscerne il nascondiglio – accumulati negli anni. E affinché non potesse sfuggire a quell’ineludibile rimborso si era deciso di tenere in ostaggio il suo erede. Figlio per il quale l’unico favore che era riuscito a strappare, fra indicibili sofferenze e vergognose angherie, era stato che non sarebbe stato sacrificato alla piazza prima della maggiore età. Diciotto anni che il tutore sperava in cuor suo sufficienti a recuperare il bottino ma anche a riconquistare credito e dignità. Per questo aveva accettato di partire lasciando nelle mani della giunta la compagna e il delfino e permettendo addirittura che s’incominciasse a scavare le fondamenta del nuovo palazzo delle autorità in sua assenza.
Giunto il corteo nei pressi dell’ultima porta della città il tutore aveva fatto arrestare l’auto. Quindi, abbassato elettronicamente il vetro del finestrino, rivolgeva uno sguardo estremo alle teste senza volto infisse nell’arco di pietra che, come vedette del tempo corrose dai venti, parevano incombere su di lui fin quando, ripartita l’automobile, non tornavano a specchiarsi sulla lastra, lentamente montante, del finestrino. Pronte come Gorgoni terrifiche a ornare lo scudo di vetro ma anche a pietrificare negli occhi, a fissare nella mente le ultime immagini della compagna e del piccolo erede. La prima nuda fra le pieghe delle lenzuola che continuavano a vellicarne il corpo, l’infante che, ciondolando ignudo dal letto i piedi orfani di un sandalo, seguitava a baloccarsi con il volante della smagliante automobilina a molla che si rigirava in mano mentre con l’alluce si divertiva a girare l’elica dell’aeroplanino ai suoi piedi.
Perciò gli era stato ancora più difficile e penoso accettare di andarsene. Anche adesso che richiudeva il vetro piano piano, come a voler custodire per sempre quella scena, mentre di lì a poco anche il profilo della città aveva incominciato a scivolar via dal lunotto dell’automobile di nuovo in marcia […].
6
Le carrozze blindate con il prezioso bottino di manufatti arcani erano giunte alla stazione della città alla vigilia della maggiore età del delfino. Ma nessuno se n’era accorto né aveva riconosciuto dopo diciotto anni il tutore. Quasi tutti erano infatti impegnati nei preparativi del sacrificio dell’erede e la consacrazione dei proci della giunta a tiranni della città che avevano ormai concentrato da tempo nelle loro mani ogni potere. E se avevano rispettato la scadenza era stato soltanto perché la compagna del tutore aveva concesso quasi tutto. Per esempio aveva permesso, per scongiurare almeno le sevizie più crudeli e inguaribili al delfino, che essi non solo s’impadronissero dei servi e violentassero le serve ma facessero anche scempio del nuovo palazzo riempiendolo degli orpelli della loro avidità di comando. Inoltre per tenerli meglio a bada, specie quando erano preda dei loro eccessi, aveva deciso di ritirarsi con l’erede nell’ala adesso meno nobile – ma di sicuro più lucrosa per i proci – della dimora. Quella che, attraverso un declinante e stretto corridoio a picco, aveva sempre portato ai preziosi ipogei delle donne e degli uomini che avevano fatto e abitato la città ma che già dopo qualche anno, a palazzo non ancora finito, la giunta aveva spartito in boxes, sigillati da massicce saracinesche zincate, ben più appetiti e redditizi.
A dire il vero il patto stava ormai per scadere e la sorte del delfino sembrava segnata. A nulla parevano servire le salite della donna alla torre di vetro dalla quale, di notte e di giorno, lanciava fino a un orizzonte smarrito sguardi sempre più esausti e disperati.
Tuttavia proprio lei era stata la sola a scorgere, pur di lontano, lo sposo. E subito gli aveva mandato incontro i pochi servitori ancora fedeli raccomandando loro di avvertirlo dei pericoli che avrebbe corso se si fosse avvicinato a palazzo. Temeva infatti che i proci avessero rispettato fin allora l’accordo soltanto perché convinti che il tutore non avrebbe potuto mai più recuperare i tesori. Perciò il solo vederlo tornare e trovarselo davanti, con o senza bottino, avrebbe infiammato unicamente la loro vendetta.
D’altra parte sapeva bene che per salvaguardare l’erede egli non avrebbe potuto far altro che mostrare ciò che aveva trovato: non aveva scelta. Il tempo stringeva e non poteva certo star lì a calcolare e soppesare ogni rischio. Ma che almeno si fosse mosso con estrema prudenza – aveva ingiunto di dirgli alla sparuta di servi che dovevano aiutarlo – nell’accostarsi al palazzo. Nell’introdurre quelle casse, già scese dai vagoni e caricate su un camion, nella nuova residenza del comando. Se le avessero viste prima del tempo la maggior parte vi si sarebbe gettata sopra senza indugio e, forse, non avrebbero atteso altro per fare strage anche di lui, di lei e dei servitori rimasti con loro fino all’ultimo. In un colpo solo si sarebbero non soltanto impossessati del tesoro ma avrebbero cancellato il passato con loro due e scacciato, immolando il delfino, l’avvenire.
Marzo 2000