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San Giovanni Valdarno

Un presidio urbano

Se giunti al “bivio” di Cetamura s’abbandona il crinale etrusco per scendere nella conca del Valdarno di Sopra presto un binario ci ricorda quanto lo sviluppo di questo territorio sia stato legato al ferro e alla lignite. E se la lavorazione del primo rinvia ai metallurghi raseni (foto 1), non a caso il minerale per la ferriera valdarnese è giunto per molto tempo dall’isola d’Elba, quella del secondo rimanda addirittura alla preistoria.

Infatti è a quell’epoca che risalgono le foreste da cui hanno avuto poi origine quei giacimenti di lignite, oggi esauriti, dallo sfruttamento dei quali ha preso avvio – perfino negli incendi e nei fumi delle miniere (foto 2) forieri degli altiforni (foto 3) e dei camini siderurgici successivi – l’evoluzione industriale della vallata.

 

Uno sviluppo di cui quella rotaia – vana e spersa come le zanne villafranchiane sepolte in abbondanza sotto questo fertile terreno – risulta la spia evidente. O, qualche centinaio di metri più in là, nella frazione di Ponte alle Forche, la spoglia. La carcassa nei resti della fabbrica di briquettes di lignite dove nugoli di corvi appollaiati sulle travi scarnite delle tettoie sfondate sembrano vegliare sul piazzale. Ora desolato – conquistato dalle erbacce e dai rovi – ma che nell’immediato dopoguerra era pieno dei carretti e dei barrocci dei valdarnesi che, già esperti nel separare la “pula” del grano, aspettavano che il vento alzasse la polvere nerastra – tra la quale s'aggiravano come piattole furtive – per caricare le scaglie di lignite fra le stanghe lustre e scortecciate.

 

Proprio come facevano alla fine del Duecento quelli che dovevano strappare all’Arno i ciottoli e la rena per le case e le mura di Castel San Giovanni. “Castrum finis” alla cui edificazione il fiume offriva la materia prima ma anche la minaccia costante delle sue alluvioni contro le quali nulla potevano – allora come oggi a quanto pare – le «steccate» né le continue altre opere di arginatura.

In realtà alla permanente insidia degli allagamenti corrispondeva l’ansia di rinnovamento e la volontà d’espansione della Firenze mercantile d’inizio Trecento. In tal senso Castel San Giovanni fu, fin dalla sua fondazione, insieme a Terranuova e a Castelfranco, non solo un avamposto militare ma anche un presidio urbano su cui il “comando” fiorentino scommetteva.

Una «terra nuova» utile ad agevolare (reso sicuro il fondovalle, conquistata la strada più comoda verso i granai della Valdichiana, monopolizzata la discesa lungo l’Arno del legname dal Casentino) lo sviluppo agricolo e a incrementare i traffici commerciali del contado. Non a caso, proprio per tutelare meglio i suoi interessi alla frontiera meridionale, Firenze mandò in Castel San Giovanni suoi rappresentanti ufficiali. Vicari i cui stemmi da “sceriffi” (foto 4) di un medievale far west sono ancora in parte visibili sulle pareti e sulle colonne del Palazzo Pretorio. 

 

D’altra parte che Arnolfo di Cambio (cui si attribuisce il disegno di Castel San Giovanni e, forse, del suo Palazzo Pretorio) fosse pratico anche di palazzi di giustizia lo dimostra la sua presenza — dopo gli anni di “apprendistato” senese e perugino con la somma "ditta" Pisano — nella fabbrica del «tribunal romano».

 

Come del resto non è pensabile che egli si fosse scordato degli spiazzi dei castelli svevi visti al seguito degli Angioini quando progettò quello ai piedi e alle spalle del suddetto Palazzo Pretorio(foto 5) intersecato dal geometrico reticolo delle vie, di Castel San Giovanni.

 

Come, infine, è difficile credere che sfuggisse alla formidabile impressione dei macigni etrusco-romani al momento dell'ideazione della cinta muraria a difesa della città.

 
 

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