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Ichnussa

In principio questo scritto doveva essere il prologo a cagliari. Una delle cinque “città d’anni” costituenti le tappe fondamentali del mio percorso di uomo e di scrittore. Un progetto autobiografico nel quale, come ho già affermato nell’articolo omonimo, ogni luogo si fonde con il tempo in generale e con ciascuna mia età in particolare.
Nel testo seguente però – forse anche perché l'autobiografia ha origini risalenti addirittura ai poemi omerici – la forma narrativa ha prevalso e si è imposta a tal punto da fruttare un racconto per nulla preambolare ma del tutto autonomo.

II

   […] Non avendo dormito bene al risveglio Paolo Sorti si sentiva fiacco e nervoso. Ma forse era soltanto l’ansia di rivedere e ritrovare Gavino Onni ad agitarlo, a spingerlo a correre velocemente con l’auto lungo la strada stretta e tortuosa per Is Arenas. Non tardava quindi ad arrivare davanti alla sbarra biancorossa, prontamente alzata dal poliziotto nella guardiola, della portineria della casa di reclusione. Ma la notizia dell’assenza del suo amico – uscito all’alba senza aver lasciato detto dove andava tranne un vago «al mare» confessato all’agente di guardia – s’abbatteva su di lui. Fra capo e collo come la sbarra calante sul ceppo scarlatto dell’ingresso a cui volgeva le spalle curve e la testa china tornando alla vettura ferma nel piazzale sterrato di fronte.

 

   Prima di risalire, però, ci ripensava. Per non rendere inutile il viaggio – e sopra tutto per lenire la delusione e alleviare l’amarezza del mancato incontro – decideva di far valere comunque il permesso dell’autorità giudiziaria che aveva in mano. Con quello sarebbe potuto entrare dentro la colonia penale per vedere almeno i luoghi nei quali Gavino aveva speso tanti anni della sua vita e sperare che avesse trovato qualcuno o qualcosa da fare per rendergli il tempo più breve e la pena meno dura.

   Senza saperlo lo avevano fatto certamente gli asinelli bianchi dagli “occhi di mandorla marina” – amava pensare Paolo ascoltando la sua guida ispirata – oppure gli eucalipti. Giganteschi guardiani muti ma viventi, al contrario delle immote macchine minerarie della Laveria Bau, dei magazzini crollati, delle case diroccate degli operai come dei funzionari. E perfino la villa estiva del primo direttore delle miniere che il treno a scartamento ridotto – usato durante la settimana per il trasporto del minerale – portava con la famiglia la domenica al mare. Tra le stesse dune nelle quali anni dopo, come documentavano le fotografie mostrate a Sorti dalla sua guida, erano accolti nelle colonie marine i figli dei minatori. O di metalmeccanico come lui, balenava nella mente di Paolo Sorti alla vista della fotografica “Passeggiata in fila sulla sabbia” che lo accompagnava di lì a qualche minuto all’uscita dalla casa di reclusione sospingendolo con malinconia ma irresistibilmente in direzione della non lontana spiaggia di Scivu.

   Nonostante la vicinanza per arrivarvi egli doveva tornare indietro e rifare la strada allungandola. Tuttavia, sebbene stanco e triste, risaliva in auto e ripartiva guidando stavolta senza fretta ma con l’obbiettivo di soddisfare il bisogno di riposarsi e di riordinare le idee in riva al mare. Là dove covava la segreta, fievole speranza si fosse recato anche il suo amico. Anzi, di lì a breve credeva di scorgerlo fra i viandanti che in fila indiana nella banchina della via ne percorrevano arroventati dal meriggio la dirittura finale che in fondo pareva tuffarsi nella sterminata e iridescente vasca marina.

   Purtroppo non era così. Di conseguenza tornava a farsi sentire quell’opprimente senso di vuoto e di fallimento provato alla portineria della colonia penale. Uno smarrimento che – fermata poco dopo in un sabbioso slargo la vettura nella quale lasciava scarpe e calzettoni prendendo però il cappello di paglia – sembrava addirittura scandire e accompagnare i suoi passi scalzi nei gradoni di legno dello scalone terminante sulla spiaggia dove di lì a poco, sventolando i chiari abiti di lino, affondava i piedi. Subito sbandando un po’ con l’asciugamano sotto il braccio e il cappello di paglia in testa alla vista di una scena sulla battigia solo apparentemente ordinaria.

   Un gruppetto di bambini vi sembrava impegnato infatti nella costruzione del solito castello di sabbia. Perciò nemmeno l’ammirevole e lesta destrezza con la quale si passavano i secchielli e gli attrezzi di plastica variopinta avrebbe potuto destare in quel momento la sua attenzione o attrarre il suo interesse. Tuttavia, osservando meglio, Paolo s’accorgeva che era una costruzione ben diversa. Intorno alle quattro torri angolari e allo svettante bastione centrale c’era un muro su cui i bimbi avevano incominciato ad applicare sassolini e gusci di conchiglie presi dal secchiello più grande. Anzi, tutti e cinque continuavano concentrati ad eseguire il lavoro nonostante il babbo di Angelo (il figlio del bagnino che pareva il capomastro dell’impresa) gli consigliasse di spostare il “cantiere” qualche metro più all’interno del bagnasciuga. Ma Angelo, rispondendogli con la domanda «A chi dà noia?», seguitava imperterrito con gli altri l’edificazione della “fortezza nuragica” per la quale molti dei sassi e delle valve accuratamente scelti prima venivano adesso rifiutati, gettati via o ributtati in mare.

  
   La commossa e sorprendente scoperta spingeva Sorti a sedersi sulla sabbia sviandolo dal passaggio, non troppo al largo, di un grosso e lussuoso yacht che sembrava speronare – immaginava ammirandone come tutti il profilo senza invidiarne come loro il possesso – una delle sue adorate navicelle di bronzo sarde. Non solo ma la potente “onda lunga” del panfilo avrebbe potuto affondare anche il monumento del quintetto. Capiva allora, ripensando al consiglio del padre al figlio, che la “fortezza di sabbia” sarebbe stata distrutta dalla bava conquistatrice.

  
   Immediatamente cercava con lo sguardo il bagnino al quale, dopo avere srotolato l’asciugamano e messe le ciabatte di gomma cadute, a poco a poco si avvicinava. A tal punto da vedere il sorriso con cui il suo assistente, infilando l’ennesimo ombrellone nel buco appena fatto, ammiccava all’onda avanzante sempre più prossima alla riva. Ma alla sua intenzione di avvertire Angelo suo padre, accostando una sdraio e un lettino sotto un ombrellone, sembrava rabbuiarsi e cercare le parole più serie e giuste per spiegargli la ragione del suo diniego. E solo quando pareva aver trovato quella vera gli rispondeva, udito anche da Sorti che aveva disteso ai confini del bagno, segnati da una triplice fila di lasche corde arancioni, l’ampio asciugamano bianco e blu.


   «È bene sappia fin da bambino che alle spalle di una vittoria c’è sempre la sconfitta.» rigirando il lettino di alluminio per scuotere la sabbia dal telo impermeabile «Certo, lui e i suoi compagni non possono saperlo: guarda come sono contenti perché ignari del pericolo!» esclamava alzando un po’ la voce e lasciando poggiato su un fianco il lettino «Dovranno scoprire da soli ciò che sta per arrivare…» afferrando con forza e sollevando senza sforzo a mezzo metro da terra il lettino «come da noi vincano sempre gl’invasori» scaraventando con rabbia al suolo il lettino di cui subito dopo apriva le gambe e orientava il tettuccio parasole. Poi inseriva nell’ombrellone il bloccaggio antivento e quindi s’avviava alla torretta di avvistamento di cui, prima di salirvi a sedere, controllava la cassetta del pronto soccorso, il salvagente e infine il megafono collaudato chiamando e amplificando il nome del figlio.


   Angelo alzava di scatto la testa. Appena in tempo per essere accarezzato e inzuppato sino al ventre, come i suoi compagni di lavoro, dal frangente che allagava la “fortezza nuragica” poi, ritirandosi e sciogliendo la sabbia, la demoliva portandosi dietro il bottino dei variopinti relitti di plastica. Armamentario che i bambini recuperavano e spargevano alla svelta sulla spiaggia, pronti a iniziare un nuovo gioco. Forse addirittura quello di vendicarsi del mare tuffandosi in acqua, dopo una lunga rincorsa, a capo basso come arieti in (dis)amore. […] osservando ancora i piccoli tuffatori, gli sembrava decisa la sorte di Angelo quando, non rispondendo più alla dura indifferenza del padre bensì al suo preoccupato richiamo dalla torretta, lo rassicurava dicendogli: «Stai tranquillo, arrivo soltanto fino alla “secca”».

   Ebbene, proprio questa parola appariva a Sorti fatale poiché se da un lato dimostrava la dimestichezza del bimbo con il mare dall’altro ne lasciava presagire l’impossibile affrancamento futuro dal posto. E forse su questo inconsciamente contava anche Paolo ripigliando, di lì a breve, la passeggiata nella speranza mai sopita di rintracciare prima o poi Gavino nonostante l’inquietudine che pareva sbattere la sua sventolante camicia aperta, scandire ogni suo faticato passo e affondare le sue orme nella battigia. Almeno finché quest’invisibile e greve scafandro non era risucchiato più avanti dalla comparsa di una cavità scavata dal mare e dal vento nell’arenaria come una preistorica domus de jana.


   Nell’angolo della grotta riparava nell’ombra un uomo dagli abiti di scuro e pesante velluto, con un berretto sulla nuca e una borsa di pelle a tracolla. Ritto, di spalle a Paolo Sorti che lo osservava a distanza, armeggiava nello zaino di tela grigioverde appeso con una borraccia ciondolante a un bastone conficcato in una crepa della roccia. Dopo avere slacciato una tasca estraeva un fagotto quindi, voltandosi lentamente, si sedeva sullo sgabello di un ceppo sbiancato – dono certo di un’antica mareggiata – trattenendo la borsa a tracolla e il cappello sugli occhi. Quindi scartava l’involucro di panno dal quale sbucava un pezzo di pane mentre dal cartoccio d’untuosa carta gialla sortiva un tòcco di formaggio posati poi entrambi sulle cosce.

  
Già questo bastava a incoraggiare Sorti, tuttavia ciò che lo spingeva a muoversi era l’apparizione di un lungo coltello da pastore – sfilato dalla cintura di cuoio – fra le mani dell’uomo verso cui Paolo, non riuscendo più a frenare la speranza, non tardava ad avvicinarsi. Ma a pochi passi da lui l’uomo lo bloccava puntandogli contro il coltello in cima al quale c’era però l’offerta di un pezzo di formaggio.


   Paolo Sorti, pur incerto sulle gambe, avanzava sino a conquistare la lama e con la punta delle dita di una mano, tremante per l’emozione come l’altra, afferrava il tòcco portandolo lestamente alle labbra in mezzo alle quali rimaneva tutto il lungo momento seguìto al commosso stupore seguente il moto della punta sgombra del coltello con cui, sollevando il berretto sulla fronte, si rivelava Gavino Onni.