Città d'anni

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autobiografia letteraria

(da avvertenza al lettore)

Questa autobiografia lo ribadisce l’attributo letterario – non ha alcuna pretesa di “scientifica obbiettività”. Ciò significa che per qualsiasi autore ogni fatto della vita, banale o sorprendente che sia, altro non è che fonte d’invenzione e di spunto letterario per raccontare una “storia immaginaria” che, trasfigurando la propria esistenza, non deve però tradire mai quella reale e giornaliera di tutti. Sopra tutto perché ciascun narratore sintetizza nel suo lavoro i caratteri essenziali della propria epoca di cui vive quotidianamente i problemi per cui la forma autobiografica non è «un affare privato» né «progressiva separazione dell’io dal mondo esterno» cui lasciare l’ultima traccia di sé.

Questo vuol dire addirittura che gli accadimenti autobiografici (qui accompagnati da note messe alla fine di ciascun «capitolo» sia per non appesantire il racconto stesso sia per integrarlo*) diventano "realmente veri" unicamente in grazia della qualità e del valore letterari con cui sono narrati. Pertanto anche le presenti «città della memoria» – associate ognuna a un'età della vita e quindi presenti ovviamente qui con quelle già svolte – non sono protagoniste in sé stesse ma in quanto teatri della mia storia di uomo e della mia formazione di scrittore.

*qui ne presento tre esempi per dare un’idea più precisa circa la loro funzione integrativa in ogni racconto.

(da II, adolescenza (1966-1971), torino)

Il pur breve soggiorno a Torino ha segnato senza dubbio la mia adolescenza la quale ha dato un certo verso alla mia gioventù che ha poi fissato la direzione della maturità e questa, verosimilmente, l’approdo ultimo della vecchiaia. Un percorso in cui all’intensa concentrazione delle impressioni infantili – ben espressa dalle piccole dimensioni della cittadina nativa – è seguita l’enorme dilatazione delle aspettative dell’adolescenza rappresentata al meglio dalla grande città piemontese. Un tragitto esistenziale che ha avuto allora uno sviluppo proporzionale al corso fluviale da cui partendo mi allontanavo con quello del fiume che avrei incontrato al mio arrivo. […]

Una ragione in più per seguire il corso del tempo nel fluire delle acque del Po. Per questo avevo incominciato a passeggiare spesso lungo le sue sponde giungendo talvolta fino al complesso architettonico di Italia ‘61 la cui monorotaia sempre rammenta – a proposito di esuli anonimi ma importanti per la fabbrica italiana d’automobili torinesi – la fiumana di lavoratori meridionali che Torino ha risucchiato. E a poco si spera valgano i tentativi di quei “nordisti” che, immemori e corti di “gnegnero”, cercano di sputar via dopo averli ben masticati e digeriti tutti quei “terroni” che hanno contribuito allo sviluppo industriale di ciò che essi chiamano «Padania» la quale, bisogna ricordarlo, ha come ogni territorio umano situato ovunque origine in Africa. Tutt’al più i meridionali possono essere accusati, al pari dei “nordisti” e della maggior parte degli Italiani, di concorso di colpa a causa del quale – e in nome di un insensato consumismo come di un tenace pericolo comunista e di un inflessibile conforto cattolico – non ha corrisposto un effettivo progresso culturale e civile del popolo italiano. (16)

Un differenziale di cui solo la maturità mi ha reso cosciente ma che già allora, proseguendo nelle mie camminate inconsapevoli, era ben rappresentato dal Palazzo del Lavoro (arca della fatica che con il piacere può mobilitare il meglio e il vero dell’uomo) e dal laghetto artificiale (specchio fedele di brame finte secondo cui si dovrebbe bordeggiare come in mare aperto) che lo separa, sotto la sopra citata monorotaia che li congiunge, dal Palazzo a Vela. Qui mi era capitato talora che la visione all’interno fosse ostacolata, se non alterata, dalla presenza di pannelli, di stands di qualche fiera in allestimento. “Recinti” nei quali le squadre di operai s’aggiravano senza soluzione di continuità: come topi lasciati “liberi di muoversi” nei labirinti creati ad arte dagli scienziati per osservarne i comportamenti.

All’abbandono dei Palazzi seguitavo abitualmente a camminare nel Parco del Valentino. Quindi ero solito raggiungere, fiancheggiando il Po scoccante bagliori cromati tra le frasche dell’argine, i Murazzi dove, vinto dalla stanchezza e dal calmo fluire del grande fiume, mi sedevo a uno dei tavolini d’una vecchia società di canottaggio. Magari, quando era possibile, vicino all’approdo di un paio di battelli che facevano la spola fino a Moncalieri. Due ampie e immobili terrazze di legno sverniciato che il più delle volte sembravano rollare solo quando venivano trafitte da esili onde. Brividi limacciosi e fitti che le canoe di passaggio – spinte da vogatori attratti forse dalla coppa della statua sulla fronte della Gran Madre di Dio poco lontana – parevano scagliare, come punte di freccia a pelo d’acqua, contro di loro. Prima di sparire alla vista sotto le arcate di Ponte Vittorio Emanuele I da cui mi muovevo talora per raggiungere la Collina di Superga con la tramvia a cremagliera.

Una salita lenta che a ogni scarto sulla rotaia può spingere la mente, memore della dentiera ferrata di Opicina, fino al capo opposto del giogo alpino sopra a Trieste. In tal caso più che l’alleanza austro-piemontese a cui si deve l’erezione della basilica possono imporsi “connivenze” forse azzardate ma certo profonde. Per esempio non è impossibile (come infatti è capitato a me partecipando con una delegazione juventina a una cerimonia commemorativa della tragedia aerea) davanti alla lapide che ricorda la squadra di calcio del “Grande Torino” riandare ai «rosso alabardati» del triestino Umberto Saba.


   Scrittore ebreo concittadino e correligionario, come Italo Svevo, del cinquantenne con il quale un mese dopo il mio arrivo a Torino ho condiviso la parte più importante di un viaggio dal capoluogo piemontese a quello giuliano. (18) Intanto perché era la prima volta che in treno scortavo, talora avvicinandolo talaltra scostandolo, il corso del Po sin quasi alla foce. Poi perché andare allora da ovest a est dell’Italia voleva ancora dire passare, attraversando l’infula della pianura padana consacrata all’intensivo sviluppo industriale e a quello estensivo delle coltivazioni agricole, dal libero benessere occidentale alla schiavitù della miseria orientale. Significava insomma lasciare il mondo del bene approssimando, oltre l’interminabile reticolo della «cortina di ferro» destinato a cadere sotto i colpi e le spinte della rete spanta delle odierne connessioni illimitate, il mondo del male che non ci si rassegnava a voler convertire all’unico sistema politico vincente perciò ecumenicamente giusto (non per nulla la FIAT in quegli anni non aveva indugiato ad aprire uno stabilimento in Unione Sovietica).


   Un modello dominante alle cui regole dovevo anch’io esteriormente sottostare nonostante l’irresistibile tacita ribellione interiore. Uno «stile di vita» che gli Agnelli padroni avevano inteso trasmettere e infondere, solitamente con metodi suasivi e impeccabili maniere, a ogni “ovile” del loro impero. Di conseguenza eccomi quel giorno indossare la divisa della loro famosa squadra di football la quale, rendendomi bersaglio della curiosità altrui fin dalla stazione di partenza, faceva sì che si mescolassero in me uno schivo pudore e la piacevole fierezza dell’ingenuità adolescenziale. Una miscela di sentimenti alla cui forza esplosiva mi ero opposto solo quando, per naturale timidezza e irriducibile imbarazzo, avevo rifiutato l’autografo a svariati ragazzini sciamanti sulla banchina del binario e persino a qualche adulto affacciato più tardi alla porta dello scompartimento della carrozza in cui sedevo nel posto che mi era stato prenotato. […] Per la verità fra gli sguardi ammiccanti di molti passeggeri che non scalfivano la mia corazza sportiva ce n’era uno – quello del cinquantenne accennato sopra – che si distingueva per la sua attenzione distaccata e muta. Una vigilanza silenziosa che sul treno, non appena egli si era seduto di fronte a me a occupare un posto prenotato che sembrava fisso, aveva trovato la voce eloquente di parole subito inaspettate, presto sconvolgenti e mai dimenticate. […]

Ma prima che si allontanasse non avevo resistito a chiedergli come si chiamasse. E anche se me l’aveva detto soffermandosi e voltandosi appena prima d’incamminarsi di nuovo e sparire per sempre devo averlo udito bene. Sì, ne sono certo perché la sera, al momento di calciare il rigore decisivo della vittoria guardando le tribune piene di esseri umani sapevo che l’avrei tirato anche per loro e per lui. Ovvero per Uno Tutti come m’aveva gridato di chiamarsi, sicuro che non ci avrei creduto ma anche che non l’avrei mai scordato, come le lettere del libro lasciato apposta per me sul sedile del treno, in ogni circostanza della mia vita. (20)

 note

16 La severità di tale analisi e la conseguente gravità dell’affermazione conclusiva poggiano su fatti precisi e concreti. Per esempio sulla constatazione che le poche vere conquiste civili raggiunte hanno agito sul costume ma non sulla cultura del Paese. Esse infatti si sono estese, profittando anche di un diffuso quanto insidioso benessere, ad ogni strato sociale ma poco o nulla hanno inciso sulla capacità critica nazionale di adoperarle al meglio. Insomma, come affermava Pier Paolo Pasolini, si è inseguito un evidente sviluppo economico confondendolo con un autentico progresso civile. Un errore peraltro pagato a caro prezzo non solo dall’Italia quando esso – alla caduta del Muro di Berlino e al dilatarsi dei mass-media – non solo non è più apparso uno sbaglio ma è diventato l’unico obbiettivo possibile, il solo modello giusto per tutti. Così è stato relativamente facile per il marcio eppur vincente sistema capitalistico approfittare dell’occasione irripetibile – celare la merce avariata esibendola e spandendola senza soluzione di continuità in mercati praticamente planetari – in modo da perpetuare con maestria illusionistica il proprio inestinguibile dominio. Moloch imperante a cui sacrificare tanto un imponente flusso di denaro quanto il deflusso di braccia e di cervelli impotenti a trovare un posto di lavoro nel luogo in cui sono nati e molto probabilmente avrebbero voluto vivere.  

18 All’epoca conoscevo qualche poesia di Saba e avevo letto, sulla scia dell’omonimo sceneggiato televisivo del 1966, La coscienza di Zeno (1923) di Italo Svevo. Un romanzo che, al pari del poco lontano Uno, nessuno e centomila (1926) di Luigi Pirandello, non solo mi aveva rivelato un’idea nuova della letteratura (come aveva fatto prima l’altro “nordico” siciliano Giovanni Verga) ma donato anche un personaggio, l’inetto urbano, fondamentale nello sviluppo della migliore letteratura novecentesca. Tuttavia, nonostante ciò, non avrei mai potuto immaginare allora l’importanza e l’influenza che la “letteratura triestina” – inserita nel solco di quella mitteleuropea già citata – avrebbe avuto sulla mia scrittura di cui è significativa testimonianza il romanzo Una vecchia gioventù (2002).  

20 Se allora ho capito subito che Uno Tutti era l’identità fittizia di quell’uomo, solo la «corrente della vita» mi ha permesso di comprendere come e quanto in essa sia riassunta quella vera di tutti gli uomini. Ognuno dei quali potrà forse riuscire ad essere sé stesso a patto che gli altri facciano altrettanto. Se non tutti che almeno la gran parte di loro sia disposta, cioè, a scorticarsi la pelle alla corteccia dell’albero della vita e non preferisca invece farsi carezzare dalle molli e caduche frasche del mondo marcio. A rifiutare, insomma, la prigionia liberale di un sempre più espanso e pregno vuoto esteriore per accettare fino alle estreme conseguenze la libertà della solitaria cella interiore dalle cui spesse ed isolate mura difensive continuare a combattere nella convinzione che «anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera». Proprio come affermava Antonio Gramsci in una delle Lettere dal carcere la cui edizione del 1965 quell’anonimo autorevole comunista mi aveva lasciato in eredità.