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Transiti italici

(da volterra)

Nella scalata al buio autunnale il masso e il Maschio di Volterra lasciano immaginare al viaggiatore l’elmo e la cresta di bronzo principeschi della tomba di Poggio alle Croci. Un principe guerriero di cui anche il resto del corredo è esposto nel Museo Guarnacci della città, precisamente nelle prime sale del pianterreno dove sono custoditi i reperti più antichi ritrovati nelle varie necropoli volterrane. 

A tal proposito, scendendo l’automobile nel garage ipogeo, altrettanto immediato si fa largo nello scrutatore il pensiero invero singolare di come la città si sia formata quando le comunità villanoviane stanziate lungo le pendici del poggio hanno deciso di riunirsi e poi fondersi là dove – sull’acropoli – avrebbero potuto meglio difendersi. Nello stesso posto cioè in cui ancora oggi la società tiene reclusi coloro che la minacciano.

Insidia la quale strozza ancora il visitatore che il mattino dopo – raschiato dal vento e appena acceso da un pavido sole si avvia verso il burrone delle Balze passando attraverso il degrado del quartiere che le anticipa. Un disfacimento reso ancora più evidente da chi oggi sembra trovare rifugio perfino nelle tombe dei Marmini, sia egli senza dimora o permesso di soggiorno da queste parti (alla cui attualità pare alludere perfino lo zainetto sulla schiena del giovane “contrapposto” dell’Adorazione dei Pastori di Peter de Witte nella Pinacoteca). Oppure sia intento ad affidare la sua fuga da queste terre a un viaggio verso un altrove che, al contrario di quello agl’inferi principiato dagli Etruschi dopo il banchetto funebre con i familiari e in compagnia delle cose usate da vivi, lo divora e allontana ogni giorno da sé. 

Così mentre là sotto, al buio, un ago di siringa (mutazione odierna forse dei chiodi sparsi del Compianto, anch’esso in Pinacoteca, del medesimo pittore) infila una vena, di sopra nella terza cappella della Chiesa di San Giusto una spera di sole penetra a segnare, assottigliata e scurita dallo gnomone dell’arco, il mezzogiorno. 

Fuori invece le razzate del vento paiono spingere via la luce solare dalla facciata di pietra grezza vegliata da fittili santi guardiani su quattro colonne a fianco del collare dei gradini strascicandola fino al baratro delle Balze cui sembra temperare le creste e i fianchi battuti e modellati dal maglio del tempo.  

Qui poi si posa e si stende nel paesaggio sotto la Badia (committente del Cristo Benedicente, oggi in Pinacoteca, a un Ghirlandaio toccato dalla grande lezione fiamminga) e ben oltre gli avanzi delle possenti e ampie mura etrusche sotto le quali sono stati ritrovati lo ziro e il cinerario che simili in una vetrina del Museo allo spaccato di un utero con il suo feto hanno generato anche a Volterra la civiltà rasena. 

Reperti che, insieme a quelli delle coeve tombe volterrane esposti nelle sale iniziali del Guarnacci, costituiscono non solo le bardature ma anche gli armamenti in possesso di un principe guerriero di cui si può avere un’idea, magari seguendo l’iscrizione di un bell’attingitoio di bucchero in una teca precedente, osservando con attenzione e con l’ausilio di una scheda illustrativa la stele litica di Avile Tite. 

Pietra sepolcrale di duellante che – poco prima di essere moltiplicata nelle saghe mitologiche dei cassoni dei sarcofagi cinerari occupanti gran parte delle sale – fa bene il paio con il contenzioso per la cosiddetta testa Lorenzini di cui oggi la teca espone un vistoso quanto promozionale annuncio di copia. 

A dire il vero, replica o meno che sia, essa pare sospingere lo sguardo dello scrutatore prima all’ultimo piano del Museo fin davanti a una testa romana accanto alla statua marmorea di madre acefala cui sembra appartenere in un divertente gioco fra l’orrido e il grottesco poi l’accompagna al primo piano della Pinacoteca di fronte alla bella e abrasa testa coronata del XIII secolo ma anche all’altra coeva testa di marmo scolpito inciso e trapanato, forse dalla Fontana Maggiore di Perugia, di Giovanni Pisano. 

Proprio il carattere erratico di tale frammento, così come la sua provenienza dall’inesauribile fondo Guarnacci, ma sopra tutto l’espressione e i “tarli” del profeta possono far giungere il visitatore attento a scoprire come a Volterra alcuni manufatti rappresentino al meglio l’età e le fragilità della vita. 

Se al primo riguardante l’era neonatale si è già fatto cenno il secondo, quello dell’epoca infantile, è da identificarsi nel coperchio dell’urna 141 dove né la bulla né la sapienza nell’Etrusca Disciplina della sua gente hanno saputo salvaguardare la breve esistenza del dodicenne Aulo Cecina Selcia. Mentre l’età giovanile pare averla scampata come sembra mostrare il bronzetto ellenistico noto come Ombra della Sera custodito ed esposto scenograficamente qualche sala dopo. 

In realtà la sua vista, spentosi l’incanto iniziale, insinua a poco a poco una sottile inquietudine che può non tardare a farsi vera e propria angoscia qualora si riesca a scorgere nell’ombra che s’allunga alle spalle dell’adolescente così come in quella che lo precede le lame di sicari tanto oscuri quanto inesorabili come i loro nascosti e noti mandanti. Forse gli stessi dei molti “replicanti” (ormai il modello è unico e gli ateliers sono in grado di apportarvi solo varianti minime e scontate) che sui coperchi dei sarcofagi di alabastro paiono puntare lo sguardo al di là della vetrata fino ai fianchi delle Alpi Apuane dal cui ventre alcuni secoli dopo sono usciti marmi ben più originali e belli. Forse i medesimi boia, spietati come l’ineludibile realtà modellata nel coperchio fittile dei corpi, e specialmente sui visi, dei due anziani coniugi cui il tempo ha sottratto come la vita che li fugge pur lasciando talora traccia di sé quale l’uovo miracolosamente conservato nella tomba del Portone la cassa dell’urna.