NOTE
1 Sebbene nel castello normanno-svevo di Bari sia stata affissa di recente una lapide che rinvia leggendariamente ad un abboccamento tra Francesco di Assisi e Federico II di Svevia, le fonti storiche non fanno mai menzione di un incontro realmente avvenuto fra i due. Questo non elimina però la costante e diffusa aspettativa – reiterata nel corso dei secoli e rappresentata nel “prologo” della versione integrale dai personaggi intermediari e dal richiamo nel corso del Dialogo a precisi fatti storici – di augurarsi un confronto fra due figure tanto importanti dell’epoca medievale quanto, per molti e svariati aspetti, perfino per il mondo presente (attualità che in questa sede giustifica, almeno in parte, anche la scelta e l’uso di un linguaggio corrispondente a quello odierno). Un colloquio che, riconoscendo le tante e diverse cose che avrebbero avuto da dirsi, si prefigge per l’appunto d’immaginare questo Dialogo incentrato sopra tutto su argomenti di cultura generale privilegiando, sopra tutto nel finale, quelli di carattere linguistico-letterario. Aspetto a cui aggiungo che in altra rubrica di questo sito web (Itinerari) è presente un articolo (Sculture. Esempi di nobiltà e campioni di miseria dell’arte plastica in Italia) il cui testo integrale compone, insieme al Dialogo del frate e dell’imperatore, l’opera di prossima pubblicazione in formato (purtroppo solo) elettronico intitolata Il mazzuolo e la penna.
10 Agli osservatori che la visitano l’attuale Chiesa di San Francesco a Ripa Grande offre due immagini del santo assisiate dipinte a distanza di quasi settecento anni l’una dall’altra. La prima è un ritratto di S. Francesco, opera su tavola di Margaritone d’Arezzo, posta sull’altare maggiore, la seconda insieme ad altri due quadri di Giorgio de Chirico è esposta, su volere della sua vedova, nella piccola cappella che dal 1992 accoglie le spoglie del pittore greco. Si tratta della tela più grande (La caduta o salita al Calvario, 1947, 180 cm x 160 cm, tra le sue più brutte) considerata anche la più importante opera sacra del Pictor Optimus nella quale è dipinto, a mezzo busto in basso a destra di chi osserva, San Francesco d’Assisi di cui nella stessa chiesa è tuttora visibile – custodita dietro una grata fonte di celebrata devozione insieme ad altre reliquie del santo presenti nel Santuario – una grossa roccia nera. Ovvero, com’è scritto nel cartiglio soprastante affisso alla parete, il “sasso dove posava il capo il serafico padre Francesco” che per gravi problemi respiratori era costretto a dormire in posizione obliqua. Così come la crescente cecità – aggravatasi al ritorno dalla quinta crociata – lo obbligava a soggiornare spesso in luoghi bui.
11 Della rete castellare federiciana fa parte, come si sa, Castel del Monte la cui fondazione risale probabilmente a prima del 1240 ma certamente dopo la morte di Francesco di Assisi. La sua collocazione in cima alla collina non lontana da Andria e la sua singolare forma architettonica ne facevano sicuramente un manufatto capace di affascinare, di destare stupore e ammirazione, allora come oggi, in chiunque e quindi costituisse anche uno strumento efficace di esaltazione del potere e della grandezza di Federico II. Più controversa è invece la cosiddetta “destinazione d’uso” di Castel del Monte. Tuttavia la maggior parte degli studiosi concordano ormai – esclusa la funzione militare per l'assenza di fossato e ponte levatoio – su un utilizzo plurimo della struttura. E fra questi non è affatto improbabile quello di “osservatorio spaziale”, (a cui si deve essere forse ispirato pure l’architetto Renzo Piano nel progettare lo Stadio San Nicola di Bari dato che l’ha soprannominato l’Astronave) vista la scelta del sito illuminato in tutte le ore del giorno dal sole in una relazione di luci ed ombre che definiscono le forme e valorizzano i colori del monumento. Senza dimenticare che nel Medioevo il rapporto con il sole condizionava non solo l’orientamento degli edifici sacri (in un “mandato” del gennaio 1240, inviato da Gubbio al suo Giustiziere di Capitanata circa i lavori di costruzione, l’imperatore indica il castello come Sancta Mariam de Monte) ma è impensabile che non influenzasse anche la passione astronomica di Federico II alla cui morte il figlio prediletto Manfredi non esitò ad accostare il crepuscolo serale («È tramontato il sole della giustizia…»). Magari subito dopo, secondo quanto afferma nella sua Cronica Giovanni Villani riproponendo il motivo del regicidio di antica sospetta tradizione e perfino anticipando la rimozione del parricidio di stampo freudiano, avere spento la luce negli occhi del padre proprio nel giorno di Santa Lucia del 1250 soffocandolo per l’appunto con il guanciale del suo letto di morte, forse abbreviandone pietosamente l’agonia e gl’insopportabili dolori intestinali da possibile avvelenamento, di certo ambiziosamente accelerando la sua successione al genitore imperiale.
12 Qui ho inteso velatamente anticipare nel Dialogo l’idea del testo letterario più famoso, e linguisticamente maggiormente significativa, dello scrittore assisiate che come riproporrò anche più avanti è uno dei temi portanti del colloquio tra il frate e il sovrano. Si tratta, insomma, di “barlumi” allusivi di un’opera che avrebbe trovato effettiva compiutezza – seguita ad una controversia avvenuta tra il vescovo e il podestà di Assisi – poco più tardi ed appena prima della morte di Francesco.
35 Il 5 giugno 1224 Federico istituì con editto formale a Siracusa, per la città di Napoli, la prima universitas studiorum statale e laica della storia d'Occidente, in contrapposizione all'ateneo di Bologna, nato come aggregazione privata di studenti e docenti e poi finito sotto il controllo papale. L'università, incentrata sullo studium di diritto e retorica, contribuì all'affermazione di Napoli quale capitale della scienza giuridica e, come si dirà più avanti, della scienza medica e perfino delle sue ricadute e applicazioni socio-ambientali. Federico la scelse per la sua posizione strategica e il suo già forte ruolo di polo culturale e intellettuale indispensabile, quindi, alla formazione di quei “quadri dirigenti” necessari alla tutela e allo sviluppo di uno stato centralizzato. Un regno la cui amministrazione – fondata ma anche spesso frenata da una macchinosa burocrazia di cui Federico II era consapevole – per ben funzionare aveva bisogno di un corpo legislativo combinato di regole ben dosate che facessero chiaro e netto riferimento a fonti del diritto romano, canonico e feudatario. Un’organica raccolta giuridica che ebbe compimento nell’agosto del 1231 e prese il nome dal luogo in cui, durante una fastosa cerimonia inaugurale, essa fu promulgata e alla cui compilazione aveva collaborato il meglio dei giuristi del tempo (Roffredo di Benevento, Pier delle Vigne, l’arcivescovo Giacomo di Capua, Andrea Bonello da Barletta). Un sistema legislativo unitario che è stato a lungo modello di giustizia ed è noto come Costituzioni di Melfi (o melfitane) sebbene il titolo originario (Constitutionum Regni Siciliarum libri) renda più manifesta l’idea dell’imperatore svevo di riordinare sopra tutto il suo Regno di Sicilia. Anche se, a dire il vero, con tali leggi egli abolì i dazi entro il regno e ridusse le importazioni all’interno di tutto l’impero.
36 Il continuo contatto con gli ambienti di cultura e con gente proveniente da ogni parte d’Europa, i viaggi fuori d’Italia, nonché il fatto che potesse leggere e parlare in latino, nell’italiano e nel francese di allora, di sicuro contribuirono ad accrescere in Francesco, stando alle affermazioni di Tommaso da Celano, anche una certa esperienza delle lettere, in particolare della teologia ed in parte perfino delle scienze naturali.
47 Se a Francesco di Assisi si deve il primo esempio poetico italiano, alla cosiddetta “scuola siciliana” risale la primogenitura del movimento unitario ed istituzionale che è all’origine della nostra letteratura poetica. Un movimento che davvero nasce e si sviluppa nella corte itinerante federiciana. Di essa più tardi per Dante Aula è l’ambiente imperiale e Curia è la riunione dei sapienti che ne fanno parte, da qui la sua definizione di aulici e curiali dei protagonisti della scuola poetica siciliana che egli leggeva di certo non diversamente da come si leggono ancora oggi. Del resto le fonti toscane erano talmente abbondanti da far sì che dalla Sicilia alla Toscana non si operò una traduzione ma si costituì una salda tradizione in grado di fornire storica concretezza alla nozione dantesca di volgare illustre introdotto dai “Siciliani”. D’altronde Dante mostra di conoscere bene quello che è ritenuto il capostipite della “scuola siciliana e inventore del sonetto” Iacopo Notaro o da Lentini di cui cita una canzone al pari di una di Rinaldo d’Aquino. Tuttavia molti critici e storici della letteratura nostrana considerano, sia per impegno linguistico che per ingegno poetico a mio avviso sopravvalutati, la prova maggiore e originale del genere contrappuntistico siciliano il “contrasto” di Cielo d’Alcamo Rosa fresca aulentissima.
48 Se a partire dalla definizione dantesca della “Scuola siciliana” nessuno ha potuto negare il ruolo e le capacità di Federico II quale “organizzatore culturale” e diretto promotore della lirica volgare illustre italiana, i giudizi su di lui poeta sono però assai più disparati, specie da parte della critica moderna. Essa infatti risulta tutt’altro che riverente (ed io con essa) nei confronti dell’imperatore svevo, anche se all’inizio del secondo millennio c’è stato chi ha provveduto a una rivalutazione, almeno parziale, del valore letterario della sua opera di cui fanno parte sei componimenti i quali, con vario grado di attendibilità, diversi testimoni assegnano a Federico II. Pressoché certa è, comunque, l’attribuzione della canzone De la mia dissïanza. Lo stesso criterio attributivo vale per Dolze meo drudo che parrebbe scritta ad imitazione del Dolce cominzamento di Iacopo o Giacomo da Lentini. Possibili ma fortemente incerte sono invece le attribuzioni a Federico di Misura, providenza e meritanza, Poiké ti piace Amore, Per la fera membranza e di Oi lasso non pensai. Molto più recentemente si è proposto, infine, di attribuire all’imperatore svevo la canzone adespota Amor voglio blasmare.
49 L’appartenenza della maggior parte dei “Siciliani” alla Curia imperiale è stata certamente una componente essenziale della loro rinuncia alla tematica politica, satirica ed etica – fatta propria anni più tardi con ben altri esiti poetici dagli stilnovisti toscani e non – che è ripresa invece, specie in ambito toscano, prima da Guittone d’Arezzo e poi, sicuramente influenzati da lui ed in parte da Jacopone da Todi, da Cecco Angiolieri e sopra tutto da Folgore da San Gimignano, poeta fra i più importanti della letteratura precedente quella dantesca.
50 Ripresa ed elaborazione prosastica d’un verso di una lirica (Però c’Amore non si po' vedere) con il quale Piero delle Vigne risponde, sul tema aristotelico della natura del sentimento amoroso, sia ad un testo di Jacopo Mostacci (Solicitando un poco meo savere) sia ad un altro sonetto di Giacomo da Lentini (Amore è uno desio). Egli, a differenza dei due altri “poeti siciliani”, sostiene che l’amore ha una forza tanto propria quanto invisibile (Per la vertute de la calamita / como lo ferro at[i]ra no si vede, / ma sì lo tira signorevolmente;). Certo è davvero singolare che l’invisibile dote di attrazione dell’amore si sia potuta trasformare nel caso di Pier delle Vigne nel crudele e feroce accecamento ordinato da Federico II – ricordato da Poggio Bracciolini («durante la guerra che mosse contro lo Stato della Chiesa, aveva fatto accecare Pietro, italiano,») – nei confronti del suo “segretario particolare”. Una condanna che sicuramente ha contribuito, unitamente all’accusa probabilmente falsa di tradimento, a spingere Pier delle Vigne al suicidio e Dante ad inserirlo tra i violenti contro sé stessi nel Canto XIII dell’Inferno della Divina Commedia.