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Dialogo del frate e dell'imperatore

  […] FRATE: 1 «Vieni, Federico.» lo accoglieva con fraterna confidenza e la testa poggiata su una grossa pietra scura «Entra, e scusami per la penombra cara e necessaria ai miei occhi. 10» aggiungeva spostando in avanti un po’ il capo e, dopo avere accostato la schiena al ruvido masso, invitandolo amabilmente ad avanzare nella semioscurità agitando lentamente un paio di volte una mano.

  IMPERATORE: «Non ti preoccupare, Francesco.» ricambiando con garbo la confidenzialità con il tono affabile della voce «Spesso nelle torri dei miei castelli seguo gli astronomi nelle loro osservazioni notturne del cielo. 11» accomodandosi sul cuscino di lana grezza d’un frusto sedile di legno «Sono quindi abituato al buio della notte e alla luce delle stelle.» adattando gli occhi al fioco chiarore della stanza e, levandosi la corona posata in grembo come il fodero con la spada, anche tutta la sua persona alla cella.

 

  FRATE: «Benedetta sia la notte che – abbassata a sera la palpebra il sole –» sollevando il greve sguardo verso il pertugio della finestrella «culla il sonno e beate siano le tante pupille luminose delle stelle che lo vegliano. 12» attardandosi sulla grata filtrante spicchi di luce ormai al crepuscolo.[…] «Senza la natura non può esserci la bellezza.» appoggiando la guancia alla pietra battendola un paio di volte a mano aperta «Con tante di questa gli uomini hanno potuto costruire castelli e chiese, con i marmi le statue che hai potuto ammirare dentro e fuori di loro. Ma tutti i materiali per la loro costruzione, lo sai bene,» tornando a guardarlo immobile davanti alla finestrella «sono opera del Creatore che li ha offerti agli uomini affinché essi li adoperino per soddisfare bisogni e sogni così da non dimenticarsi mai di esprimere infinita gratitudine e di onorare continuamente Colui che ha loro donato. Agli uomini come a tutti gli altri esseri viventi e alle cose che fanno parte e animano il Creato che intendo lodare scrivendo un inno, se la salute mi assiste,» alzando la testa e sollevando la fronte verso la fiammella della candela «di cui vorrei continuare a dire quando, come hai detto tu prima,» osservando sorpreso lo scarto improvviso della fiamma «parleremo della lingua.» sospettando stupito che fosse stata forse raggiunta dal suo fiato inaspettatamente forte e insolitamente sicuro.

  […] IMPERATORE: «Anch’io, istituendo l’anno prossimo l’Università di Napoli,» scostandosi d’un tratto dalla finestrella «intendo sostenere un ritorno all’ordine dominato, come si conviene,» accostandosi al sedile «dal valore del vero sapere per ben fare le cose e le persone migliori,» aggiustando un paio di volte il cuscino «ossia le conoscenze utili a formare gli uomini più giusti ad amministrare, a mio vantaggio e sotto il mio comando,» mettendosi a sedere e schiacciando con forza le natiche sul cuscino del sedile «il Sacro Romano Impero per mezzo di saggi giuristi ed equi magistrati capaci tanto di scrivere leggi quanto di giudicare secondo un loro chiaro e preciso codice, necessario a limitare sia i privilegi del clero cattolico sia quelli della nobiltà feudale,» muovendosi ripetutamente come a cercare la posizione più comoda sul cuscino «a cui sto pensando da tempo e ragionando con i miei consiglieri. 35» fermandosi ma seguitando a parlare e non smettendo d’incontrare lo sguardo invero piuttosto stanco di Francesco appoggiato più grevemente al masso «Così come faccio solitamente con i filosofi a corte ai quali richiedo da sempre che sappiano più di tutto tradurre dall’arabo…»

  FRATE: «Perché, Federico,» accendendoglisi d’un tratto gli occhi «se perfino uno come me» staccando la testa dal sasso e sporgendo appena in avanti la fronte «si è fatto intendere dal sultano e dalla sua corte di sapienti usando sopra tutto la mia parlata, oltre al francese e al latino? 36» tornando a poggiare il capo alla pietra quasi avesse compiuto uno sforzo superiore alle sue forze.

  IMPERATORE: «Proprio per eliminare le versioni in latino scritte dagli amanuensi dei monasteri e delle cattedrali e sostituirle, come si sta già facendo nelle nascenti università quali sarà la mia,» lanciando una frecciata con gli occhi al crocifisso ligneo sopra la testa di Francesco «con quelle in arabo delle opere originali dei più importanti autori dell’antichità.» spostando gli occhi alla finestrella e di certo intenti ad interessi ben al di là e assai distanti da essa.

  FRATE: «Eppure anche il poco che so, come il molto dei sapienti più di me,» lasciando andare pesantemente a destra la testa sul sasso «non sarebbe stato possibile senza i codici manoscritti in latino perlopiù dai monaci. Perfino il tuo sapere, quello della tua corte e dell’umanità tutta è stato salvato dalle distruzioni barbariche proprio dagli uomini di chiesa.» scivolando adesso il capo a sinistra quasi facendolo cadere sulla spalla.

  […] IMPERATORE: «Non solo lo ammetto ma lo rivendico perché io stesso sono convinto di vedere accresciuti potere e prestigio dalla forza di persuasione politica e di consolidamento sociale della lingua. Per questo l’adozione del volgare siciliano illustre è parte fondamentale del mio programma nel quale avrà appunto grande importanza lo sviluppo – create e promosse già da un anno nella mia Magna Curia le condizioni indispensabili alla sua nascita e alla sua crescita – di una scuola poetica 47 in cui proprio il volgare siciliano dovrà a poco a poco sostituire il provenzale cortigiano e prevalere per sempre su qualsiasi altra lingua europea.» rizzandosi dal sedile e posando sul cuscino le vesti «E perciò mettendo al centro dei suoi interessi e dei suoi versi tanto il mondo naturale che il trasporto amoroso nato dall’attrazione fisica per la donna e nutrito dalla visione della sua soavità angelica.» avvolgendo in vita la spada nel fodero «In questo ciascuno dei poeti, me compreso, 48» stringendo la cinghia e serrando la fibbia «godrà anche del piacere della perfezione di sé visto che non lascia ignorato alcun segno di emozione. Egli, infatti, possiede massimamente tanto l’istinto d’intuire e la vocazione a comprendere quanto l’arte del comunicare e dell’esprimere, così da poter non solo entrare in ogni sensibilità ma di trasformare in continuazione ciascuna mente.» rinfilandosi l’ampio mantello e, accomodata di fianco la spada seminascosta, rimettendosi seduto.

  FRATE: «Quello che tu attribuisci all’uomo speciale che è il poeta per me appartiene invece a Dio. Per questo il mio inno di lode al Signore farà ricorso alle cose e alle creature, grandi e piccole, dell’universo da lui concepite e compiute per essere guardate e godute, in serenità e letizia, anche dai fedeli più umili e limitati. Tutti capaci, però, di vedere e di gioire delle nuvole varianti gli spazi e i colori sulla tela del cielo e della terra; del vento che le fa ballare o correre nell’aria; del tempo sereno che come lenzuolo si stende ovunque. Con ciò facendo dono agli uomini di fede della ragione per magnificare la molteplice varietà degli esseri generati dal creatore ma anche permettendo a coloro che non credono di comprendere sia il rapporto intimo fra tutte le creature sia la loro necessità per noi che ne abbiamo bisogno per vivere. Una contemplazione dell’universo che dall’alto del cielo discende fino in basso per comprendere le sofferenze fisiche e le offese spirituali patite da noi uomini in terra e che solo l’infinita bontà divina ci dà la forza di sopportare e perdonare.» riaprendo gli occhi ora che anche il chiarore lunare si era scostato da essi «Ed è proprio in questo passaggio continuo fra le creature celesti e quelle terrene che nel mio Cantico dovrà compiersi il rappacificamento universale, la riconquistata armonia fra la vita materiale di ogni creatura e la vita spirituale di ogni uomo. Un fraterno riconciliarsi che sarà pure l’umile ripagare il Creatore della generazione della vita nel mondo. Ovvero di un suo immenso atto d’amore che ci ha concesso di godere di un grande universo, unico e bello, popolato di cose ed esseri che ci offrono in ogni momento la possibilità di avvicinarsi, pregando e lodandolo tramite loro, a Colui che tutto questo ha benevolmente creato…» sollevando a fatica la fronte «perfino a me che ormai posso gustare i frutti di un simile amore soltanto con gli occhi della mente o con la voce melodiosa di un dolce e sempre più lontano ricordo.» tentando con uno strenuo sforzo di prendere il crocifisso sopra di lui ma riuscendo solo a strusciarlo con una fugace carezza prima che il braccio gli ricadesse in grembo.

  IMPERATORE: «Al buio della notte – cui si deve pure la vista dei lampi delle lucciole –» accomodandosi bene il mantello sulle spalle «segue sempre la luce del giorno, così come il tempo presente annuncia fatalmente quello futuro…» allacciando i lembi attorno al collo «non a caso i poeti che hanno adottato e seguiteranno ad usare l’illustre siciliano pur non essendo tutti originari dell’isola sono però tutti consiglieri ed amministratori del mio regno. Tuttavia, malgrado i loro incarichi ufficiali, la loro attività poetica non è e non sarà mai secondaria, anche se sarà sempre fedele a chi non solo la protegge e la incoraggia ma la svolge finanche in proprio. Per questo essa è fin da subito concentrata nella scelta di temi e motivi che non sono politici né morali e nemmeno satirici bensì d’argomento esclusivamente amoroso, tale da ben rappresentare l’irresistibile desiderio dei sensi. 49 Oppure essa può e potrà, a piacere dei suoi autori, anche assumere le forme d’una disfida sulla natura dell’amore perfino alla luce delle ultime conoscenze della storia naturale dovute sopra tutto ai filosofi e agli scienziati della mia corte.» rizzandosi d’un balzo, aggiustando la spada alla cinta e calcando un po’ la corona in testa.

  FRATE: «[…] «Ma non le senti!» esclamava d’un tratto «Non senti come cantano le allodole anche nell’oscurità!» puntando gli occhi già più aperti alla finestrella trafitta e illuminata da uno scampolo di luna «Per non scordarsi di venire a salutarmi hanno sfidato perfino il buio che tanto le spaventa… eccole, eccole che arrivano!» quasi gridando e spalancando completamente gli occhi «Guarda! Guarda, Federico, come beccano contente le mie briciole!» senza cessare di osservare gli uccelli e trovando addirittura la forza per rizzarsi in piedi accennando persino a raggiungerli.

  IMPERATORE: «Fermo, Francesco!...» facendo svelto un passo in avanti per sorreggerlo vedendolo sbandare «Non c’è bisogno che ti avvicini a loro che già ti ringraziano, saziandosi lesti ed allegri,» trattenendolo per un braccio e accostandolo con le spalle alla pietra «del pasto che hai offerto generosamente loro…» girando di lato la testa, insieme a Francesco, all’uscio sentendovi picchiare un colpo sonoro «nobile atto d’amore che è come la forza invisibile che attira il ferro alla calamita. 50» dando il braccio al frate che vi si appoggiava prima di passare ad essere sorretto – schiusa del tutto la porta della cella da cui entrambi uscivano – da un confratello con il quale […] s’incamminava estenuato e a rilento. Non senza però fermarsi dopo qualche passo per voltarsi sorridendo e salutare con il cenno d’una mano cui l’imperatore rispondeva chinando un po’ la testa ed appena la corona prima di allontanarsi […].

22 X 2023

 

NOTE

1 Sebbene nel castello normanno-svevo di Bari sia stata affissa di recente una lapide che rinvia leggendariamente ad un abboccamento tra Francesco di Assisi e Federico II di Svevia, le fonti storiche non fanno mai menzione di un incontro realmente avvenuto fra i due. Questo non elimina però la costante e diffusa aspettativa – reiterata nel corso dei secoli e rappresentata nel “prologo” della versione integrale dai personaggi intermediari e dal richiamo nel corso del Dialogo a precisi fatti storici – di augurarsi un confronto fra due figure tanto importanti dell’epoca medievale quanto, per molti e svariati aspetti, perfino per il mondo presente (attualità che in questa sede giustifica, almeno in parte, anche la scelta e l’uso di un linguaggio corrispondente a quello odierno). Un colloquio che, riconoscendo le tante e diverse cose che avrebbero avuto da dirsi, si prefigge per l’appunto d’immaginare questo Dialogo incentrato sopra tutto su argomenti di cultura generale privilegiando, sopra tutto nel finale, quelli di carattere linguistico-letterario. Aspetto a cui aggiungo che in altra rubrica di questo sito web (Itinerari) è presente un articolo (Sculture. Esempi di nobiltà e campioni di miseria dell’arte plastica in Italia) il cui testo integrale compone, insieme al Dialogo del frate e dell’imperatore, l’opera di prossima pubblicazione in formato (purtroppo solo) elettronico intitolata Il mazzuolo e la penna.

10 Agli osservatori che la visitano l’attuale Chiesa di San Francesco a Ripa Grande offre due immagini del santo assisiate dipinte a distanza di quasi settecento anni l’una dall’altra. La prima è un ritratto di S. Francesco, opera su tavola di Margaritone d’Arezzo, posta sull’altare maggiore, la seconda insieme ad altri due quadri di Giorgio de Chirico è esposta, su volere della sua vedova, nella piccola cappella che dal 1992 accoglie le spoglie del pittore greco. Si tratta della tela più grande (La caduta o salita al Calvario, 1947, 180 cm x 160 cm, tra le sue più brutte) considerata anche la più importante opera sacra del Pictor Optimus nella quale è dipinto, a mezzo busto in basso a destra di chi osserva, San Francesco d’Assisi di cui nella stessa chiesa è tuttora visibile – custodita dietro una grata fonte di celebrata devozione insieme ad altre reliquie del santo presenti nel Santuario – una grossa roccia nera. Ovvero, com’è scritto nel cartiglio soprastante affisso alla parete, il “sasso dove posava il capo il serafico padre Francesco” che per gravi problemi respiratori era costretto a dormire in posizione obliqua. Così come la crescente cecità – aggravatasi al ritorno dalla quinta crociata – lo obbligava a soggiornare spesso in luoghi bui.

11 Della rete castellare federiciana fa parte, come si sa, Castel del Monte la cui fondazione risale probabilmente a prima del 1240 ma certamente dopo la morte di Francesco di Assisi. La sua collocazione in cima alla collina non lontana da Andria e la sua singolare forma architettonica ne facevano sicuramente un manufatto capace di affascinare, di destare stupore e ammirazione, allora come oggi, in chiunque e quindi costituisse anche uno strumento efficace di esaltazione del potere e della grandezza di Federico II. Più controversa è invece la cosiddetta “destinazione d’uso” di Castel del Monte. Tuttavia la maggior parte degli studiosi concordano ormai – esclusa la funzione militare per l'assenza di fossato e ponte levatoio – su un utilizzo plurimo della struttura. E fra questi non è affatto improbabile quello di “osservatorio spaziale”, (a cui si deve essere forse ispirato pure l’architetto Renzo Piano nel progettare lo Stadio San Nicola di Bari dato che l’ha soprannominato l’Astronave) vista la scelta del sito illuminato in tutte le ore del giorno dal sole in una relazione di luci ed ombre che definiscono le forme e valorizzano i colori del monumento. Senza dimenticare che nel Medioevo il rapporto con il sole condizionava non solo l’orientamento degli edifici sacri (in un “mandato” del gennaio 1240, inviato da Gubbio al suo Giustiziere di Capitanata circa i lavori di costruzione, l’imperatore indica il castello come Sancta Mariam de Monte) ma è impensabile che non influenzasse anche la passione astronomica di Federico II alla cui morte il figlio prediletto Manfredi non esitò ad accostare il crepuscolo serale («È tramontato il sole della giustizia…»). Magari subito dopo, secondo quanto afferma nella sua Cronica Giovanni Villani riproponendo il motivo del regicidio di antica sospetta tradizione e perfino anticipando la rimozione del parricidio di stampo freudiano, avere spento la luce negli occhi del padre proprio nel giorno di Santa Lucia del 1250 soffocandolo per l’appunto con il guanciale del suo letto di morte, forse abbreviandone pietosamente l’agonia e gl’insopportabili dolori intestinali da possibile avvelenamento, di certo ambiziosamente accelerando la sua successione al genitore imperiale.

12 Qui ho inteso velatamente anticipare nel Dialogo l’idea del testo letterario più famoso, e linguisticamente maggiormente significativa, dello scrittore assisiate che come riproporrò anche più avanti è uno dei temi portanti del colloquio tra il frate e il sovrano. Si tratta, insomma, di “barlumi” allusivi di un’opera che avrebbe trovato effettiva compiutezza – seguita ad una controversia avvenuta tra il vescovo e il podestà di Assisi – poco più tardi ed appena prima della morte di Francesco.

35 Il 5 giugno 1224 Federico istituì con editto formale a Siracusa, per la città di Napoli, la prima universitas studiorum statale e laica della storia d'Occidente, in contrapposizione all'ateneo di Bologna, nato come aggregazione privata di studenti e docenti e poi finito sotto il controllo papale. L'università, incentrata sullo studium di diritto e retorica, contribuì all'affermazione di Napoli quale capitale della scienza giuridica e, come si dirà più avanti, della scienza medica e perfino delle sue ricadute e applicazioni socio-ambientali. Federico la scelse per la sua posizione strategica e il suo già forte ruolo di polo culturale e intellettuale indispensabile, quindi, alla formazione di quei “quadri dirigenti” necessari alla tutela e allo sviluppo di uno stato centralizzato. Un regno la cui amministrazione – fondata ma anche spesso frenata da una macchinosa burocrazia di cui Federico II era consapevole – per ben funzionare aveva bisogno di un corpo legislativo combinato di regole ben dosate che facessero chiaro e netto riferimento a fonti del diritto romano, canonico e feudatario. Un’organica raccolta giuridica che ebbe compimento nell’agosto del 1231 e prese il nome dal luogo in cui, durante una fastosa cerimonia inaugurale, essa fu promulgata e alla cui compilazione aveva collaborato il meglio dei giuristi del tempo (Roffredo di Benevento, Pier delle Vigne, l’arcivescovo Giacomo di Capua, Andrea Bonello da Barletta). Un sistema legislativo unitario che è stato a lungo modello di giustizia ed è noto come Costituzioni di Melfi (o melfitane) sebbene il titolo originario (Constitutionum Regni Siciliarum libri) renda più manifesta l’idea dell’imperatore svevo di riordinare sopra tutto il suo Regno di Sicilia. Anche se, a dire il vero, con tali leggi egli abolì i dazi entro il regno e ridusse le importazioni all’interno di tutto l’impero.

36 Il continuo contatto con gli ambienti di cultura e con gente proveniente da ogni parte d’Europa, i viaggi fuori d’Italia, nonché il fatto che potesse leggere e parlare in latino, nell’italiano e nel francese di allora, di sicuro contribuirono ad accrescere in Francesco, stando alle affermazioni di Tommaso da Celano, anche una certa esperienza delle lettere, in particolare della teologia ed in parte perfino delle scienze naturali.

47 Se a Francesco di Assisi si deve il primo esempio poetico italiano, alla cosiddetta “scuola siciliana” risale la primogenitura del movimento unitario ed istituzionale che è all’origine della nostra letteratura poetica. Un movimento che davvero nasce e si sviluppa nella corte itinerante federiciana. Di essa più tardi per Dante Aula è l’ambiente imperiale e Curia è la riunione dei sapienti che ne fanno parte, da qui la sua definizione di aulici e curiali dei protagonisti della scuola poetica siciliana che egli leggeva di certo non diversamente da come si leggono ancora oggi. Del resto le fonti toscane erano talmente abbondanti da far sì che dalla Sicilia alla Toscana non si operò una traduzione ma si costituì una salda tradizione in grado di fornire storica concretezza alla nozione dantesca di volgare illustre introdotto dai “Siciliani”. D’altronde Dante mostra di conoscere bene quello che è ritenuto il capostipite della “scuola siciliana e inventore del sonetto” Iacopo Notaro o da Lentini di cui cita una canzone al pari di una di Rinaldo d’Aquino. Tuttavia molti critici e storici della letteratura nostrana considerano, sia per impegno linguistico che per ingegno poetico a mio avviso sopravvalutati, la prova maggiore e originale del genere contrappuntistico siciliano il “contrasto” di Cielo d’Alcamo Rosa fresca aulentissima.

48 Se a partire dalla definizione dantesca della “Scuola siciliana” nessuno ha potuto negare il ruolo e le capacità di Federico II quale “organizzatore culturale” e diretto promotore della lirica volgare illustre italiana, i giudizi su di lui poeta sono però assai più disparati, specie da parte della critica moderna. Essa infatti risulta tutt’altro che riverente (ed io con essa) nei confronti dell’imperatore svevo, anche se all’inizio del secondo millennio c’è stato chi ha provveduto a una rivalutazione, almeno parziale, del valore letterario della sua opera di cui fanno parte sei componimenti i quali, con vario grado di attendibilità, diversi testimoni assegnano a Federico II. Pressoché certa è, comunque, l’attribuzione della canzone De la mia dissïanza. Lo stesso criterio attributivo vale per Dolze meo drudo che parrebbe scritta ad imitazione del Dolce cominzamento di Iacopo o Giacomo da Lentini. Possibili ma fortemente incerte sono invece le attribuzioni a Federico di Misura, providenza e meritanza, Poiké ti piace Amore, Per la fera membranza e di Oi lasso non pensai. Molto più recentemente si è proposto, infine, di attribuire all’imperatore svevo la canzone adespota Amor voglio blasmare.

49 L’appartenenza della maggior parte dei “Siciliani” alla Curia imperiale è stata certamente una componente essenziale della loro rinuncia alla tematica politica, satirica ed etica – fatta propria anni più tardi con ben altri esiti poetici dagli stilnovisti toscani e non – che è ripresa invece, specie in ambito toscano, prima da Guittone d’Arezzo e poi, sicuramente influenzati da lui ed in parte da Jacopone da Todi, da Cecco Angiolieri e sopra tutto da Folgore da San Gimignano, poeta fra i più importanti della letteratura precedente quella dantesca.

50 Ripresa ed elaborazione prosastica d’un verso di una lirica (Però c’Amore non si po' vedere) con il quale Piero delle Vigne risponde, sul tema aristotelico della natura del sentimento amoroso, sia ad un testo di Jacopo Mostacci (Solicitando un poco meo savere) sia ad un altro sonetto di Giacomo da Lentini (Amore è uno desio). Egli, a differenza dei due altri “poeti siciliani”, sostiene che l’amore ha una forza tanto propria quanto invisibile (Per la vertute de la calamita / como lo ferro at[i]ra no si vede, / ma sì lo tira signorevolmente;). Certo è davvero singolare che l’invisibile dote di attrazione dell’amore si sia potuta trasformare nel caso di Pier delle Vigne nel crudele e feroce accecamento ordinato da Federico II – ricordato da Poggio Bracciolini («durante la guerra che mosse contro lo Stato della Chiesa, aveva fatto accecare Pietro, italiano,») – nei confronti del suo “segretario particolare”. Una condanna che sicuramente ha contribuito, unitamente all’accusa probabilmente falsa di tradimento, a spingere Pier delle Vigne al suicidio e Dante ad inserirlo tra i violenti contro sé stessi nel Canto XIII dell’Inferno della Divina Commedia.