Venalità

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(da AVVERTENZA)

Già dal titolo, Venalità, questa succinta tetralogia narrativa – composta dai primi tre racconti tratti dalla raccolta Sverze e il quarto tratto dalla raccolta Tempo capitale – rivela il tema portante dell’opera. Ossia l’invincibile forza del denaro, l’inviolabile potere finanziario dominante il sistema economico-sociale governante, a scapito della vita autentica, la realtà concreta del mondo attuale. Un primato indiscusso basato sempre più sulla perpetua sconfitta dei soliti perdenti nonostante sia proprio la “letteratura degli inetti” quella che si avvicina di più alla verità. A quella, cioè, di un sistema in cui la comunità dei lavoratori vive privata di qualsiasi sicurezza e di qualunque orgoglio, anche perché essa ha perduto da tempo consapevolezza di sé se non addirittura della propria identità. Un po’ come le città odierne entro o nei dintorni di una delle quali si svolgono sempre le storie dei quattro presenti racconti nei quali i protagonisti scontano sia fisicamente la vita stessa sia materialmente l’espulsione dal mondo del lavoro.

28 gennaio 2023

 (da L’INCARICO*)

   Da tempo aveva lasciato il lavoro per la prolungata esposizione alle polveri e ai fumi tossici della fabbrica. Ormai aspettava solo il manifestarsi della malattia di cui gli erano purtroppo noti i segni osservati già in diversi compagni di lavoro morti negli anni. Si era quindi stupito quando la nuova dirigenza del vecchio stabilimento lo aveva convocato affidandogli – a compenso del riconoscimento dei requisiti indispensabili alla pensione anticipata – l’incarico di compiere la ricognizione accurata di ogni reparto da demolire.

   […] In realtà fin dal primo sopralluogo egli restava attonito e sgomento di fronte a come e quanto il tempo e l’incuria avessero sconvolto lo stabilimento rendendo quasi irriconoscibili i suoi reparti. Nulla pareva essersi salvato. Nemmeno quel poco che, rintoccando tra i finestroni rotti o sbattendo fra le brecce dei capannoni sfondati, pareva scuotersi soltanto per celebrare con quei lugubri intermittenti saluti la caduta finale o aspettare l’estrema e violenta ventata che, volandolo via facilmente, avrebbe posto compassionevolmente fine alla sua interminabile agonia.

   […] Tuttavia l’incaricato, non volendo venir meno al compito ricevuto, seguitava per giorni le sue meticolose ricognizioni finché una notte piovosa non giungeva davanti ad un alto muro scortecciato.

   […] Sulla balza del muro s’apriva una larga crepa che, restringendosi a poco a poco, risaliva la parete striata di muschio e solcata dai rivoli di pioggia che al suolo erano inghiottiti dentro una botola dal cui coperchio, lentamente schiuso, sbucava uno che scivolando nel fango si avvicinava alla fessura dove impaziente accostava gli occhi.

   […] Alla fine l’incaricato decideva di non dire nulla ad alcuno. E quando le macerie degli abbattimenti s’accatastavano al muro di confine nessuno poteva sapere se avessero chiuso la crepa dopo che si era tanto allargata da poterla varcare oppure l’avessero sigillata prima che le macchine completassero le operazioni di bonifica della nuova area edificabile.

* Questo racconto breve è dedicato in particolare ai lavoratori della ferriera della mia città natale e più in generale ai pochi che sanno ancora lavorare e ai troppi che il lavoro non hanno più. Per completezza d’informazione comunico che questo racconto è pubblicato nella rivista on line “1921/2021 TESSERE IL FUTURO, Testimonianze.

 

(da L’INTERRUZIONE*)

   Fin allora i pagamenti all’impresa edile erano avvenuti a singhiozzo, al pari dell’avanzamento a sbalzi dei lavori di recupero del grande edificio residenziale di cui essa aveva ricevuto l’appalto dal facoltoso imprenditore del quale il settore immobiliare era solo un “ramo” – e nemmeno il più redditizio anche se di certo il più usato a ripulire i profitti degli affari più loschi – delle molteplici attività che alimentavano il suo crescente e già enorme patrimonio. Una mattina però l’accesso della recinzione del cantiere – divenuta nei mesi precaria e vana quanto la carcassa dello stabile fermo al primo piano – improvvisamente si riapriva e tutto come d’incanto riprendeva ad animarsi dell’opera delle maestranze, delle manovre delle macchine operatrici, del via vai ininterrotto dei camion e del regolare arrivo e scarico delle autobotti. Quasi che uomini e cose volessero non solo recuperare il tempo perso ma guadagnarne altro in caso di nuove imprevedibili interruzioni.

   […] Certo tutto questo come ogni utile aveva un costo e così come ciascun guadagno prevedeva qualche perdita che nel cantiere non consisteva tanto nei ritardi di consegna dei materiali o delle attrezzature indispensabili – frenati peraltro dalle dure e care penali imposte ai fornitori – quanto negl’incidenti che con più frequenza capitavano ai lavoratori necessari alla costruzione. […] Quando accadeva l’incidente mortale (…) si preferiva allora procedere in altro modo. […] Un’azione particolare che era svolta, di notte e a cantiere deserto, soltanto da un carpentiere e da un manovale. Il primo addetto alla costruzione della cassaforma in legno e della gabbia di ferro dove insieme al secondo avrebbe introdotto – rannicchiato per occupare meno posto e risparmiare il cemento – l’operaio morto seppellendolo poi nel getto di calcestruzzo preparato nel frattempo dal manovale nel bicchiere ruotante della betoniera elettrica. Una colata di cui dovevano essere calcolate con precisione consistenza e quantità non solo per risparmiare il materiale ma pure per ammortizzare alla fine il costo, senza comprometterne la stabilità, della colonna portante nella quale era murato lo sfortunato lavoratore di cui al mattino – alla ripresa delle attività tra le quali una delle prime era proprio la disarmatura del pilastro – nessuno si metteva di sicuro alla ricerca delle sue tracce.

[…] Tuttavia nemmeno questo […] sventava la reiterata quanto improvvisa ed apparentemente inspiegabile interruzione dei lavori del cantiere la cui prima e più grave conseguenza era l’inaspettata quanto penosa disoccupazione delle maestranze. […] e poi il licenziamento effettivo dei lavoratori e la riduzione in miseria di molti di loro […] Alcuni […] non avevano sopportato di non riuscire più a mantenere la famiglia. Qualcun altro […] non aveva retto al peso di avere tenuto nascosti i seppellimenti notturni dei compagni morti sul lavoro. Altri, infine, penzolavano dai tubi dei ponteggi sui quali erano stati impiccati dalla mano del capomastro guidata dal padrone il quale […] aveva inteso […], serrando loro la gola, di tappare per sempre la bocca di pericolosi testimoni. Nulla faceva invece egli per ostacolare a chiunque la vista dal lungomare metropolitano del suo nuovo enorme panfilo ormeggiato […] alla fonda nelle acque internazionali che circondavano e proteggevano la sua isola privata su i cui pennoni sventolavano tutte le bandiere dei Paesi dei pochi ricchi ospiti veri padroni del mondo.

* Questa sverza è dedicata ai lavoratori della vetreria della mia città.

 

(da LA SONDA)

Il salario garantito dalla cassa integrazione guadagni ordinaria – in cui era stato messo dall’azienda metalmeccanica specializzata in tubi di ferro nella quale lavorava da un quarto di secolo – gli aveva permesso, con le ore a disposizione e la capacità di fare da sé per risparmiare sui costi, di eseguire almeno qualcuno dei lavori di manutenzione più urgente alla casa di un piano e un pezzetto di giardino ereditata dai genitori morti anni prima. Quando però aveva ricevuto la lettera di licenziamento – di poco precedente la separazione dalla convivente e dai due figli mai più rivisti – l’aveva dovuta vendere. E volendo restare, contrariamente all’azienda che aveva spostato altrove la produzione, nella città dov’era vissuto per sessant’anni era stato costretto a prendere in affitto un piccolo appartamento malmesso al piano terra d’uno scalcinato palazzo del sempre più maltenuto centro storico cittadino.

[…] Quando infine il suo stato di morosità s’era fatto insostenibile, come chiare e temibili le intenzioni di rivalsa non solo del suo padrone di casa ma di tutti quelli per i quali era ormai un peso morto, decideva di sparire dalla circolazione. I primi tempi nascondendo la pena della colpa e l’innocenza della vergogna nella sua cantina a cui si poteva accedere solo da una botola della quale soltanto lui aveva la chiave. Qui s’era dedicato […] a rimuovere da una parete un pesante armadio pieno di cianfrusaglie del padrone di casa. Mobile ingombrante dietro il quale scopriva poi – chiuso da una grata rugginosa facilmente rimossa – un oscuro passaggio circolare abbastanza grande da starci ritto e camminarvi dentro al seguito di tubazioni comparse d’un tratto a corrergli sotto le gambe allargate per poter avanzare tentoni al buio.

   Man mano però che gli pareva di conquistare terreno questo si faceva via via più molle e poco a poco più distinto il rumore di acqua fino a divenire più avanti precipitoso e scrosciante prima che egli […] rammentasse che il flusso ad alta velocità dell’acqua nei tubi generasse un “suono” causato dall’attrito dando origine a vibrazioni sonore rese udibili in superficie da speciali attrezzature. Perciò non gli era difficile immaginare gli addetti di lì a breve all’opera con […] una folta schiera di sensori spanta certamente in più punti della rete idrica per individuare più rapidamente e meglio le perdite che lui avrebbe potuto segnalare con sicurezza e comunicare prontamente se non avesse dovuto seguitare a nascondersi proprio laddove erano concentrate – e probabilmente destinate ad ampliarsi – quelle necessarie ricerche.

[…] Non era pertanto una decisione semplice quella che avrebbe dovuto comunque prendere per forza. Sia fosse stata quella di trattenersi laggiù aspettando che fossero riparate tutte le perdite senza che nemmeno una sonda ultrasonora avesse potuto scoprire la sua presenza la quale sarebbe stata immediatamente denunciata alle autorità competenti. Sia che egli avesse scelto di risalire in superficie sperando che le precise indicazioni fornite dei punti di perdita potessero bastare a perdonargli la colpa della fuga e della latitanza.

   Parecchi giorni dopo – spesi perlopiù a scansare fortunosamente le microtelecamere delle sonde calate nei vari tombini in cui erano rimbombate anche le voci torve intorno alle sue ricerche – aveva creduto di essere arrivato il più distante possibile e perciò vicino all’uscita lontana dalla città dei suoi cercatori. […] Attesa una notte senza luna – intravista attraverso le fessure d’un chiusino – decideva di salire la scala di ferro zigrinato infissa nel muro di mattoni anneriti del buio pozzetto. Messi i piedi sui due gradini iniziali non faceva però in tempo ad agguantare il secondo scalino sopra la sua testa che sulla griglia si abbatteva, cupo e sonoro, un coperchio di ferro a cui seguivano in rapida successione quelli di tutti gli altri tombini su ognuno dei quali si posava poi lo sfrigolio lampeggiante delle saldatrici che li sigillavano ermeticamente per sempre. Un’opera di piombatura che, fra il suo intimorito sconcerto, durava fin […] quando proprio dall’imbocco di quella che egli aveva supposto essere l’uscita della rete idrica giungeva assordante, rapida e possente una colata di calcestruzzo a travolgere e invadere tutto. Nello stesso […] tempo […] la superficie della prima via interessata ai lavori cominciava a risuonare dei colpi dei martelli pneumatici e, qualche ora dopo, delle grattate delle pale meccaniche per lo scavo dei fossi della nuova rete idrica che sarebbe scorsa parallela a quella dismessa e seppellita, con lui, nell’enorme getto cementizio.

 

(da IL PORTATORE)

   Per avere un po’ di tregua e di refrigerio dalla calura e dall’afa estive da più di un mese l’uomo e sua moglie dormivano con le persiane chiuse e i vetri aperti delle finestre dell’appartamento all’ultimo piano del grande casamento, brulicante di residenti, non molto lontano dal centro della città. […] Pertanto egli si alzava molto presto dal letto e per non svegliare la moglie e cominciare fin da subito i litigi ormai cronici si preparava da solo prima la colazione, poi il paniere con il pranzo perché la mensa aziendale non c’era più da tempo ed infine usciva in silenzio dall’appartamento di proprietà di lei. Così anche quel giorno era ancora un po’ buio quando giungeva al cancello dello stabilimento siderurgico in cui iniziare il suo turno di lavoro d’ingegnere disoccupato e di operaio specializzato nella manutenzione estiva degl’impianti e dei macchinari. A un metro però dalla lampeggiante sbarra orizzontale, quasi rasente con la punta la portineria accanto, si fermava richiamato dall’usciere che aveva fatto appena scorrere il vetro della finestra della guardiola.

«Dove vai?» gli chiedeva sorprendendolo.

«Come…?» domandava interdetto «A lavorare, come al solito. Perché?» rispondeva fermo e poi aggiungendo deciso prima d’interrogare il portiere appoggiato con un braccio sulla soglia della finestra. «Non hai visto e letto il messaggio sul telefonino?» gli chiedeva incredulo ed infastidito il piantone. «Quando vengo a lavorare lo spengo…» rispondeva quasi a scusarsi «[…] ma per quale motivo avrei dovuto farlo?» cedendo poi ad un altro e più decisivo interrogativo prontamente risolto dall’usciere. «Perché è l’avviso, fra i tutti che seguiranno alla fine delle ferie estive, del tuo licenziamento.» gli comunicava raggelandolo e facendolo perfino vacillare. [...] «Meglio che tu entri dentro. Quello che ho da dirti deve rimanere fra noi.» scorrendo il vetro della finestra della portineria abbuiata subito dopo da una grigia e spessa tenda interna.

   L’indicazione ricevuta era in effetti un vero e proprio consiglio – che nemmeno lui capiva quanto potesse essere disinteressato visto quello a cui esso si riferiva – sul quale l’uomo doveva riflettere bene poiché esigeva una decisione non solo veloce ma anche irrevocabile e sopra tutto immutabile. […]

   Dopo aver protratto il cammino per pensare meglio e più a lungo alle parole del piantone, l’uomo giungeva infine a casa dove richiamava agitato l’ascensore in cui di lì a poco entrava inquieto. All’arrivo al piano più alto dell’enorme fabbricato, lo scatto della portiera gli faceva lo stesso effetto di quello d’un puntuto e tagliente coltello a serramanico alla vista della sua sacca da marinaio di tela blu strinta dal cordone bianco posata sulla soglia dell’uscio. Una porta la cui serratura era coperta – e sigillata dai pezzi di nastro adesivo trasparente agli angoli della carta – da un bianco foglietto sul quale egli si avvicinava a leggere quello che la moglie gli aveva lasciato scritto abbandonandolo insieme all’appartamento venduto.

[…] L’uomo scioglieva la sacca e proprio frugando dentro, ritrovandovi al contempo i pochi indumenti abitualmente usati ed il vecchio sacco a pelo da anni inutilizzato, pareva tentare di comprendere se davvero il suo licenziamento era stata “la goccia che aveva fatto traboccare il vaso” della loro ormai insostenibile convivenza. Il definitivo pretesto, insomma, per lei di lasciarlo oppure l’esito scontato di una separazione inevitabile, covata a lungo quanto forse le trattative a lui ignote di cessione dell’alloggio ed infine attuata con la sua vendita. […] Tuttavia, nel richiudere la sacca poi messa a tracolla sulla schiena, si rendeva conto che […] tutte le ipotesi finivano per essere unicamente un’inutile sollecitazione in più ad accogliere la proposta suggerita dal portiere per poter colmare la temibile assenza di lavoro.

   Sotto la prima arcata del ponte più vecchio – appoggiata alla riva mancina del fiume che spartiva in due la città – non c’era nessuno quando l’uomo, […] vi posava la sacca e il paniere non ancora del tutto vuoto agli ultimi echi dei rintocchi di mezzanotte d’una lontana campana. Quindi estraeva il sacco a pelo, ne scorreva la cerniera, lo stendeva sul ripiano della base sbreccata dello scortecciato pilone di cemento per metà ingombro d’un mucchio di plastiche multicolori e grossi pezzi di legno ormai secco portati dalle piene invernali e non ancora rimosso. Poi s’infilava dentro il sacco a pelo per trascorrervi la notte ed essere pronto al mattino ad essere “ingaggiato”, come gli aveva detto il portiere della fabbrica, fra i primi. Ma non aveva ancora deciso per il caldo afoso se richiudere o no la cerniera che era sorpreso e scosso dalla voce di un individuo di cui non aveva minimamente avvertito l’arrivo.

[…] Al risveglio ciò che con il buio della notte era sfuggito loro – presi com’erano stati a parlarsi a lungo per conoscersi meglio e ben apprestarsi ad unire l’indomani le forze – appariva invece fin troppo chiaro e netto a tutti e due. L’informe catasta di materiale intorno alla base e addosso al pilone dell’arcata del ponte era infatti piccola cosa in confronto alla davvero esigua striscia di terreno dell’argine eroso in più punti dal corso del fiume e, specialmente negli ultimi anni, dalla forza via via crescente e dalla rapidità sempre più incontrollabile delle sue piene per giunta spesso improvvise, di frequente abbondanti fuori stagione o eccezionalmente anticipate ed intense in quelle abituali. […] Tanto inattesa e subito inquietante era invece ora la comparsa di due enormi chiatte galleggianti a poca distanza dalla riva. Una aveva sopra una pala meccanica cingolata e l’altra era colma di grandi pietre squadrate ma nessuna delle due sembrava patire né l’ingombro né il peso dei loro carichi. A differenza della doppia schiera di uomini in perizoma di panno – la cui apparizione sconvolgeva e impietriva sul posto l’uomo e il suo compagno – i quali, muovendosi con lenta fatica e sfiancante sofferenza sul malfermo lembo sassoso e nella rovente lama affilata dell’argine, precedevano i due barconi trainandoli dalla riva per mezzo di un paio di corde. Una coppia di lunghe, grosse e robuste funi legate ad un pezzo di cuoio che tutti – uno davanti all’altro con la schiena curva per il continuo sforzo – avevano stretto in vita. […] In piedi e in disparte l’uomo e il compagno erano rimasti a guardarli fin quando […] il caporale chiudi-fila non li aveva chiamati con un agitato gesto ripetuto accanto a sé.

   «Metteteli qui!» esclamava intimando a tutt’e due, con la verga puntata davanti sé, di posare sacco e zaino ai suoi piedi «D’ora in poi nulla di quello che è vostro vi servirà più. Ma intanto apriteli. Devo controllare cosa avete dentro da lasciare fuori.» ingiungeva a ciascuno sbattendo la punta dello scudiscio prima sul sacco dell’uomo e poi sullo zaino del compagno. E se al primo, dopo un lapidario «Bene» di assenso, indicava di rimettere tutto nella sacca e andare nella grande baracca – affiancata dalla cabina del bagno chimico portatile posate entrambe nello spazio della “cassa di espansione” – dove lo avrebbe dovuto lasciare trovandovi soltanto ciò che gli sarebbe stato necessario ad entrare ultimo d'una fila, al secondo non risparmiava una doppia nerbata sulle mani e sulle braccia. «Ehi, caposquadra!» gli gridava drizzando e scuotendo in aria lo scudiscio «C’è un cliente per te. Avvicina i denti del cucchiaio che c’è cibo per la nostra bocca… e tu comincia a radunare tutta questa roba che siamo costretti a requisire…» sbattendo il nerbo ora su una scatoletta ora su un’altra «per nasconderti la tua vergogna e sotterrare la tua colpa con te.» dandogli sul groppone un solo colpo sufficiente però a farlo cadere steso bocconi a terra dove, indietro un paio di diecine di metri del lungo e largo “bacino di laminazione”, la benna aveva già principiato a scavare una buca. Quasi nello stesso momento in cui il caporale con in spalla lo zaino nuovamente pieno di provviste andava verso la baracca da cui l’uomo in perizoma stava invece uscendo.

Appena in tempo per vedere il suo compagno, poco prima raccattato e messovi dentro, scaricato dalla benna nella fossa appena finita per esservi seppellito vivo e – legato mani e piedi dietro la schiena con una sola corda intorno al collo perché potesse scegliere di strozzarsi o di essere soffocato dal terreno – immune per sempre dall’ignominia.

   Al forte turbamento della vista pur finale di un’azione tanto inaspettata quanto feroce s’insinuava nell’uomo un intenso strisciante smarrimento per la perdita di qualcuno a cui, sebbene appena conosciuto, avrebbe potuto comunque appoggiarsi e sostenersi a vicenda nei momenti più difficili e duri che adesso avrebbe dovuto invece iniziare a far fronte da solo. Almeno finché non avesse potuto fare la conoscenza di qualcun altro dei portatori, a cominciare da quello che si sarebbe sicuramente trovato accanto al posto del compagno sepolto dopo che il chiudi-fila avesse finito di parlargli senza tacere o nascondere nulla, come ora lui del suo corpo ignudo coperto unicamente dal perizoma.

   «Ti consiglio di scordare alla svelta ciò che hai visto.» stringendo in una mano il pezzo di cuoio penzoloni «Potrebbe esserti non solo spiacevole ma sopra tutto dannoso al lavoro che ti attende e ti spetta dopo averti stretto in vita questa cintola…» serrandogli addosso il pezzo di cuoio «e averti dato le indicazioni essenziali di cosa e dello scopo di ciò che dovrai fare una volta scelto ed impiegato in un lavoro socialmente utile com’è questo che stiamo svolgendo tutt’insieme.» scostandosi un po’ da lui e, roteando attorno a sé il nerbo, e indicando le due file mescolate degli altri, allungandogli l’avanzo di una razione spinto a consumarla, pungolandogli le reni con la punta dello scudiscio, in mezzo alle file.

[…] «Su, forza, è l’ultimo carico di pietre scaricato dalla chiatta.» spronava […] il chiudi-fila «D’ora in poi le troverete ammucchiate nella quantità e nella misura necessarie in ciascuna delle “casse d’espansione” che incontreremo nella nostra lunga marcia sino allo sbocco in mare del fiume. Perciò datevi da fare! Non perdiamo tempo!» urlava imperioso «Anche tu che non hai avuto nemmeno bisogno di riposarti.» rivolgendosi all’uomo ed esortandolo ad assecondare, dopo avergli agganciato la corda al pezzo di cuoio attorno alla vita, il compagno a fianco in fondo alle due file cosicché anche la seconda metà poteva finalmente entrare in acqua. Qui ogni coppia di portatori ai quali era assegnata una pietra precisa la spingeva faticosamente, facendola lentamente rotolare fra i sassi e le buche del fondo fluviale, fino ad appoggiarla nel posto stabilito dell’argine dove poi, al calare della sera carezzata da lievi tocchi di brezza, su tutte si abbattevano i colpi di benna – ripetuti ed echeggianti nel vuoto dell’alveo – con cui la pala meccanica le ficcava, ad una ad una, nel terreno incastrandole bene tra loro in modo da formare una fissa e stabile massicciata o, come dicevano i due caporali, “la muraglia”.

[…] «Agli argini! Alla foce!» tuonavano poco più tardi le voci dei caporali. E fossero d’incitamento o d’intimidazione ottenevano comunque il risultato di far ricomporre la doppia fila dei portatori che subito dopo riprendeva a trascinare dalla proda le due imbarcazioni fino alla prossima “cassa di espansione” da rinforzare e mettere in sicurezza. Contrariamente all’avvilimento e all’incertezza provata dai due portatori che prima in punta alle due file si ritrovavano ora, alla ripresa della marcia, ad essere sciolti per essere rimandati e legati di nuovo in fondo alle loro file. Ovvero laddove avrebbero ripreso un po’ fiato e lo sforzo era indubbiamente minore anche se avrebbero dovuto non solo ricominciare da zero ma rimontare le file avendo già speso tante energie. Inoltre non potevano certo sperare nel sostegno complice delle coppie che li precedevano giacché queste dovevano proprio a loro le inattese quanto brusche e sferzanti accelerazioni patite ogni volta che il capo-fila imponeva, tramite proprio chi era in cima alle file, a tutti i portatori.

[…] «Se alla ripresa ogni volta del cammino c’è un cambio di pariglia,» quasi sussurrando il compagno per non farsi sentire dal chiudi-fila alle loro spalle «quando arriveremo noi al principio delle nostre file non dovremmo essere lontani dalla fine del lavoro…» abbassando, per quanto gli fosse possibile, ancora di più la voce «dalla meta.».

   L’uomo per essere sicuro che le loro parole sfuggissero alla sorveglianza del caporale – e forse anche per avere chiare le sue da aggiungere – aspettava a parlare qualche diecina di metri più avanti.

   «Per giungere all’obbiettivo che dici tu dovremo risalire le file e questo ci costerà non poco. Anzi,» senza alzare la testa ma sbirciando sottecchi il chiudi-fila che, un paio di metri dietro loro, batteva di continuo nervosamente a terra il nerbo «chi ti dice che questo prolungato sforzo non sia per noi l’unico motivo della nostra presenza. E non certo quello di giungere con gli altri sino alla fine del lavoro.» assecondando un improvviso strattone dato più avanti alla sua fune.

[…] «Vorresti dire che dopo avere partecipato ad un’opera tanto importante…» facendo una smorfia di fatica «se non decisiva per la vita di tutti quelli che vivono nelle terre attraversate dal grande fiume…» tradendo un rapido moto d’emozione «resteremo nuovamente disoccupati e privi di qualsiasi altra prospettiva di lavoro?» domandava infine con voce tremolante.

   «Davvero credi…» riuscendo in uno sforzo estremo perfino a voltarsi verso di lui «che l’avere contribuito a portare a termine qualcosa, fondamentale o insignificante che sia,» seguitando a guardarlo senza smettere mai ambedue di tirare la fune della loro fila «ti possa assicurare un qualunque privilegio o addirittura garantire un posto di lavoro sicuro?» lo interrogava infine ripiegando di nuovo lo sguardo sotto di sé.

   «No, certo.» spostando ora lui gli occhi sull’uomo «Anch’io convengo che portare in fondo un lavoro non sia un vanto tale da richiedere il favore di averlo ancora. Ma perlomeno possa essere un vantaggio utile a ritrovare un’occupazione altrove… ma perché rallentiamo?» chiedeva poi senza accorgersi di essere stato udito dal chiudi-fila che non gli risparmiava una staffilata tra capo e collo.

[…] A dire il vero prima di arrivare allo sbocco in mare del grande fiume pareva venire meno ogni motivo di concorrenza giacché la doppia fila dei portatori si andava riducendo, al pari delle “casse di espansione” via via che l’alveo si allargava e il livello dell’acqua aumentava. All’apparenza contro ogni aspettazione e senza alcun criterio che non fosse quello tanto vistoso quanto insensato di scemare il numero dei lavoratori man mano che la fonte di occupazione, pur non mutando il peso delle stesse mansioni e la fatica del medesimo impegno, si avvicinava alla sua fine. Una diminuzione di manodopera che al principio era parsa a tutti i portatori più che altro un assottigliamento che, per quanto evidente e per loro inspiegabile, aveva comunque il vantaggio di eliminare diversi sfidanti alla conferma di occupazione una volta rinforzate le rive e garantito, per quanto possibile, il regolare corso del fiume entro gli argini durante le piene improvvise o più grosse.

   Nondimeno tale riduzione aveva cominciato seriamente a preoccupare ciascuna coppia di portatori […] particolarmente turbati sia dall’ignorare le ragioni vere di un simile calo sia dall’infido timore riguardo il terribile sistema con cui esso avveniva. […] Una sparizione nascosta al fine di custodire nell’uomo e nel suo compagno la segreta incertezza dei mezzi e dei modi con i quali era compiuta e, al contempo, allo scopo di mantenere in tutti gli altri la covata ed invincibile speranza di poterla evitare caricando su sé stessi la fatica degli scomparsi così da portare a buon termine l’impegno dell’attività per la quale erano stati selezionati ed assunti.

   […] Tutte fiduciose aspettative che venivano meno […] all’uomo e al suo compagno […] quando in vista della foce in mare […] assistevano all’inaspettato cambiamento delle cose. Intanto scorgevano galleggiare – trasportati dalla pietosa corrente fluviale – i corpi gonfi e lividi dei portatori annegati mescolati ai resti di legni delle due chiatte fatte a pezzi dalla macchina. […] Poi guardavano entrambi intorno alla ricerca vana del mucchio di pietre da utilizzare per il rinforzo finale della sponda. Infine scoprivano, a giudicare dalle manovre osservate, di essere rimasti l’unica coppia presente quanto inattiva e pure assai precaria giacché nessuno dei due riusciva a levare lo sguardo dal flusso nell’acqua degli scarti umani affogati.

   Una sinistra attrattiva a cui cercava d’un tratto di sottrarsi il compagno dell’uomo tentando di scappare di corsa, presto perdendosi però nei terreni paludosi circostanti per sparire poi seppellito nelle “sabbie mobili” delle tante estese barene intorno. Un estremo tentativo al quale invece l’uomo capiva subito di dovere rinunciare se voleva ambire al […] prossimo sbocco a mare. […] Non per nulla somigliavano a veri e propri ripetuti richiami di attraente accoglienza i suoni di sirena della nave che al largo pareva aspettarlo. Bastava che lui – ora che si era spogliato di tutto il poco che gli era rimasto – entrasse nelle ultime acque dolci del fiume e si lasciasse trasportare dalla sua corrente sino alla foce da dove nuotando fra le onde e le bave salmastre avrebbe provato a raggiungere – allenato com’era alla fatica dal traino con la fune delle due chiatte e dalla messa in opera nelle prode delle grandi pietre – quel distante ed instabile ma pur sempre salvifico approdo esclusivo.