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Il primo racconto è tratto da Tempo capitale, gli altri tre da Sverze (uno, Il volo, è contenuto con una terna di altre “sverze” in un libriccino stampato, nel gennaio 2020 in 50 copie non numerate, a cura dell’autore e donato dallo stesso quale “omaggio epifanico”, alle persone a lui più care). La poesia è la diciannovesima della silloge Arsenali comuni, la “divagazione linguistico-letteraria” appartiene infine a Verbaio. Divagazioni linguistico-letterarie, testo pubblicato in formato elettronico.

 

(da L’INTERVENTO)

1

I due commessi avevano finito di posare le bottiglie e i bicchieri di vetro sui banchi disposti “a ferro di cavallo” e cominciato a sistemarvi sopra i cartellini con i nominativi dei consiglieri, lasciando al loro posto fisso sul bancone centrale quelli degli assessori e del sindaco, quando nella grande sala del palazzo comunale entrava […] una coppia di assistenti tecnici i quali […] avrebbero curato l’audio-registrazione e provveduto alla riproduzione cartacea degl’interventi che si sarebbero succeduti nel corso della seduta pubblica del consiglio comunale il quale – data la lunga serie di argomenti all’ordine del giorno – si sarebbe protratto probabilmente per l’intera giornata.

 

 […] «La scadenza del sussidio integrativo ricevuto al posto della normale retribuzione dei lavoratori dell’azienda in chiusura è attualmente l’aspetto più pressante da discutere e su cui deliberare. […] Così com’era stata tempestiva ed efficace l’azione dei lavoratori in occasione del recente disastroso evento alluvionale che aveva interessato la fabbrica. Ebbene, in quella circostanza la proprietà aziendale non si era sottratta dall’incoraggiare tale iniziativa fin dal primo momento, salvo poi scordarsi ogni riconoscimento concreto – eccetto il plauso formale in ogni sede pubblica e mediante qualsiasi mezzo di comunicazione di massa – ai lavoratori che erano riusciti a salvare, ripulire e far ripartire i macchinari per rispettare le commesse più urgenti e maggiormente redditizie. Anzi,» scartando indietro e allontanando dal microfono la testa, rendendo per un istante più bassa la voce rialzata subito e, riavvicinando la bocca alla cuffia, riprendendo a leggere «un’operazione tanto coraggiosa quanto abile di salvataggio e di ripresa produttiva […] che la proprietà […] l’aveva immediatamente inserita – allo scopo di sviare l’attenzione e omettere quella vera del minor costo là della manodopera necessario a un’ipotetica crescita di competitività internazionale – fra le svariate ragioni utili a giustificare il trasferimento dell’attività produttiva da un’altra parte. Un luogo forse più sicuro dal punto di vista idrogeologico ma sopra tutto capace di offrire» si avviava a terminare con sdegnata mestizia «le certezze indispensabili a favorire margini di guadagno probabilmente superiori ma anche a incrementare la cosiddetta “guerra fra poveri”. […]» concedendosi un attimo di pausa per bere un sorso di acqua dal bicchiere sul tavolo e poi ripigliare «Naturalmente tutto ciò a discapito del diritto-dovere al lavoro di tutti gli adulti e alla dignità di ogni singola persona umana»

 […]. Quindi – ricevuto il tacito ma chiaro assenso degl’interpellati – si procedeva al voto che sanciva l’approvazione unanime della cosiddetta “mozione climatico-ambientale” e permetteva al sindaco di concludere, quasi ne fosse la legittima coda e al contempo l’introduzione implicita all’ultimo argomento del consiglio comunale, il suo preludio. Ovvero l’informazione riguardante, per l’appunto, le “Modifiche al piano delle opere pubbliche per adeguamento tecnico” conforme a richiedere e a ottenere il trasferimento dei suoi fondi dalla regione per gl’interventi sull’argine del fiume e nel renaio del fiume.

 «Lavori, peraltro,» aggiungeva deciso ed incalzante il “primo cittadino” «già incominciati. Anzi, quasi completati sono quelli a cura dell’ente di gestione intercomunale concernenti l’ampliamento e l’infoltimento della quadrilingue segnaletica triangolare biancorossa sulle prode pertinente, com’è noto,» dando l’impressione non più di leggere ai presenti in sala ma di parlare alla cittadinanza intera «il richiamo all’attenzione di pericolo per “possibilità di onde di piena improvvise anche per manovre idrauliche”.

Operazioni tecniche indispensabili alla regolazione corretta del flusso fluviale svolte in particolare dagli sbarramenti artificiali a monte che esigono, alla luce di rovinosi precedenti alluvionali e dei crescenti rischi idro-geologici legati all’emergenza appena discussa,» non riuscendo a trattenere una pur intimorita venatura polemica «un miglior coordinamento d’idee e di azioni fra l’autorità di bacino e i comuni interessati dal corso del fiume. Inoltre, concludendo la mia anticipazione,» riabbassando gli occhi sugli appunti dai quali riprendeva velocemente a leggere «sono in corso le attività di controllo meccanico e manuale della vegetazione ripariale lungo il reticolo fluviale di competenza dell’ente suddetto».

 Il consiglio si era quindi protratto con l’animata discussione e l’approvazione con i soli voti della maggioranza del punto finale all’ordine del giorno. Forse anche per questo quando il presidente dichiarava conclusa la seduta pubblica già calavano le ombre della sera, così come era ormai completamente buio allorché si spengevano tutte le luci del palazzo di città.

2

 “PROGETTO ESECUTIVO: PIANO TAGLI SELETTIVI E MOVIMENTAZIONE MATERIALE ALVEO. MANUTENZIONE STRAORDINARIA NEL TERRITORIO COMUNALE. INTERVENTO FINANZIATO CON IL CONTRIBUTO DELLA REGIONE RESPONSABILE UNICO DEL PROCEDIMENTO”. Così si leggeva nel cartello dei lavori la cui sollecita esposizione da settimane si era rivelata fin troppo anticipata visto l’arrivo in ritardo del trasferimento della loro copertura finanziaria. Una dilazione alla quale si doveva il brusco acceleramento del piano e della movimentazione il cui compimento era stato affidato, alla ditta edile vincitrice dell’appalto, soltanto ad autunno ormai inoltrato per cui i tempi della completa attuazione del lungo e disagevole intervento di “bonifica selettiva” erano davvero molto ristretti. Ormai talmente ridotti che si era deciso d’intervenire sia sulla disposizione logistica sia sul concentramento delle attrezzature. […] Una rimozione e un trasloco che si sarebbero dimostrati inaspettatamente più difficoltosi del dovuto a causa della scarsa consistenza del terreno – e quindi dell’evidente instabilità della proda su cui baracca e cabina posavano – ripetutamente mosso e solcato dai passati interventi sullo sfoltimento della vegetazione delle rive. […] E a nulla erano valse le preoccupazioni dell’escavatorista che gli effetti di un tale differimento potessero essere eliminati nei limiti di tempo concessi e, specialmente, con l’attività di una persona soltanto. Perciò, dovendo contare unicamente sulle proprie forze e non potendo indugiare oltre, non gli restava che mettersi subito al lavoro.

 […] Per fortuna l’abilità e l’operosità del ruspista, malgrado la solitudine dell’incarico svolto spesso con le energie ridotte al lumicino, permettevano che la maggior parte dell’abbattimento selettivo della vegetazione e degli ordinati cumuli dei suoi tagli smaltiti poi dalla corrente del fiume fosse eseguita entro i ristretti tempi di scadenza. Non solo ma perfino in congruo anticipo rispetto all’avviso di massima allerta inevitabilmente comunicato dal sindaco alla popolazione che in tal modo, se la portata d’acqua del fiume avesse superato i limiti attesi, sarebbe stato possibile procedere ad evacuare con relativa calma e completa sicurezza. Così come lui che si avvicinava con precise ed esperte manovre anche all’ultima barriera da abbattere che di lì a qualche manciata di minuti veniva buttata giù e accumulata nel mucchio di tagli più vicino.

 Immediatamente dopo si rendeva conto di essere arrivato tanto in prossimità del ponte più vecchio – contro e addosso al cui pilone centrale s’accatastavano pericolosamente grossi tronchi di alberi – quanto di essersi assai allontanato dal ponte nuovo nei pressi del quale avrebbe dovuto risalire sull’argine per riposarvi la baracca e la cabina prima di lasciarvi l’escavatore aspettando l’autocarro con il rimorchio che avrebbe portato via macchina e prefabbricati. Ma sopra tutto scopriva – salita l’acqua melmosa già sopra i primi sassi del ramo più basso del fiume – di essere in mezzo a una lunga e larga striscia di rena e ciottoli non più occupata dalla selva incolta ma, seppur libera e spoglia, da una vera e propria isola in mezzo ai due ponti dalla quale doveva sgombrare prima del sopraggiungere della piena che non l’avrebbe più consentito. Perciò, per avere gli aggiornamenti necessari sullo stato del fiume, cercava di mettersi ripetutamente in contatto telefonico con il capomastro della ditta dal quale, purtroppo, non soltanto non aveva risposta ma di cui a un certo punto restava muto perfino l’apparecchio, quasi nello stesso momento nel quale […] sopra il ponte vecchio più vicino improvvisamente non transitava più alcun veicolo. Forse proprio per la minaccia di quella catasta contorta di legna verso la quale il ruspista – completamente dimentico che ciò non rientrava per nulla nelle sue mansioni – dirigeva la macchina allungandone poi il braccio in modo che la benna riusciva, dopo poche calibrate ed efficaci manovre, a liberare il pilone da quella pericolosa zavorra lignea. Un forte tonfo nell’acqua torbida e ancor più crescente che […] sembrava sospingere anche lui ad affrettare con la ruspa il percorso a ritroso fino alla risalita sull’argine dove, fosse pure abbandonando alla loro sorte i due prefabbricati, sarebbe stato se non al sicuro avrebbe almeno avuto la sola possibile via di scampo.

 Di lì a breve, però, l’avvento della fragorosa e tumultuosa ondata di piena travolgeva tutto, trascinando via con sé piante e cose ma anche quell’unica presenza umana ormai tanto inutile quanto dispersa suggerita soltanto dalla ruspa – rimasta sommersa vicino al ponte salvato – in cui seguitava a balenare il lampeggiante arancione in punta all’asta sul tettuccio spuntante dall’acqua. Una barra sulla quale il giorno dopo – smesso il fiume di far paura e ripreso il traffico ovunque tranne che sul vecchio ponte sede della cerimonia in corso – il sindaco e il presidente del consiglio comunale infilavano la ghirlanda – gettata insieme dalla spalletta del ponte a cui s’addossava un’allineata fila di persone silenziose – a nome dell’intera comunità e in ringraziamento per avere garantito la protezione della città.

 […] Così come, all’inizio dell’inverno, era inaugurata in pompa magna la biblioteca […] intitolata al disperso responsabile di un atto da molti considerato non alla portata di tutti bensì di uno soltanto e quindi unicamente per questo ricordato per sempre.

 

(da IL TORRENTE)

[…] L’unico ponte ancora agibile era, per fortuna, il più centrale e vicino al centro cittadino e ciò era sicuramente la ragione per la quale sulle sue spallette si stava poco a poco radunando e via via più assiepando una folla crescente di persone intente a guardare il fiume scorrere sotto.

 «Se non smette la pioggia intensa a monte l’acqua – che i pochi e radi boschi rimasti non trattengono più – » diceva una di loro sporgendo l’ombrello aperto celante la testa oltre la spalletta destra «farà crescere la piena che prima o poi straboccherà allagando ovunque la vallata… anche qui» esitando e concludendo a bassa voce forse per non farvi risuonare il timore comune a tutti.

 «Senza considerare,» aggiungeva un’altra sollevando l’ombrello schiuso a nascondere il busto al di qua della spalletta mancina «quello che potrebbe succedere se alla foce il vento respingesse indietro lo sbocco in mare della piena ingrossata lungo il suo corso dai tanti borri e ruscelli che, ora che sono stati ripuliti,» indugiando come se queste ultime parole potessero essere un’aggravante «finiscono senza freni e abbondanti nel fiume» terminando e abbassando la testa ad osservare, con intimorito stupore, i colpi fragorosi e le scie con cui l’acqua torbida della piena cozzava e leccava i piloni in calcestruzzo del più vecchio dei tre ponti.  

Altrove però, e nemmeno troppo distante da lì, tanta apprensione era invece l’insperato ma atteso vantaggio per il torrente che fiancheggiava di sotto la via campestre percorsa giornalmente dalle tranquille passeggiate di molti dei cittadini ora inerti e turbati a sorvegliare dai parapetti il fiume. Un torrente che, nascendo lontano, per mantenere il proprio scopo di affluente e non mancare quindi l’unico obbiettivo del fiume non poteva certo contare sulle sole forze del suo corso esiguo e ristretto. Specialmente da quando la sua portata pareva dipendere sempre più da innaturali eppur vistosi mutamenti stagionali per cui ciò che per gli uomini era ormai diventata una costante minaccia per esso era invece la più sicura possibilità di sopravvivenza. […] D’altronde esse erano le uniche che avrebbero potuto permettergli – fosse pure grazie ai cambiamenti del clima che le avevano rese più frequenti e sempre più spesso disastrose – di realizzare la ragione vera della sua esistenza. Ossia quella di sostenere ed incoraggiare la sua vocazione di affluente cedendo a poco a poco, e non senza impreviste difficoltà e persino ostacoli ardui da superare lungo il suo corso angusto e tortuoso, all’insopprimibile attrazione del fiume. Più in là soddisfatta e celebrata da entrambi nel momento in cui le loro acque torbide, abbracciandosi e mescolandosi, parevano prima fragorosamente applaudirsi a vicenda e poi lodare calorosamente, fra schizzi e rimbombi tonfanti, il reciproco dono motoso.[…] Per la verità, all’avvento qualche giorno più tardi del sereno incerto e del sole instabile tornati ad accompagnare i passeggiatori nella via campestre, le acque scomparse del torrente avevano lasciato sulla sabbia del fondo tracce del loro passaggio non solo evidenti ma addirittura assai simili a quelle di calme onde marine – ch’esso avrebbe sempre desiderato conoscere senza il tramite del fiume – tanto da far immaginare le ombre sfilanti tra i pioppi sul ciglio dell’argine come quelle dei camminatori estivi sull’orlo del bagnasciuga del mare… Al pari ora delle ombre dei cittadini, spesso doppie per gli ombrelli al seguito, le quali sfilando fra le sbarre delle spallette del ponte, nuovamente percorso dal solito traffico veicolare, sembravano assecondare lo scandire dei loro passi e delle punte dei loro ombrelli sui marciapiedi dove pareva scivolare, di tanto in tanto, anche qualche lembo scuro d’una nuvola smagliata in più punti.

 «Ha visto, signora?» domandava uno voltandosi dal parapetto verso la donna «anche stavolta la minaccia e la paura sono passate» levando l’ombrello della spalletta per appoggiarlo attorno ad un braccio.

 «Sì, fino alla prossima.» rispondeva l’altra soffermandosi appena a guardare il fiume fluire placido sotto il ponte «Insino a che quello laggiù» scartando e scostandosi dal parapetto «scorrerà dalla fonte al mare» seguitando infine a camminare nel marciapiede sopra cui ciondolava la sporta della spesa e fra i due manici posava un piccolo ombrello a spicchi variopinti.

 

(da IL VOLO)

  […] Per questo il vento sembrava giungere, pur nelle sue frequenti intermittenze, di rincorsa al poco largo ma assai lungo campo di granoturco che pareva finire al principio degli edifici del grande ospedale che per un lungo tratto fiancheggiava la sponda del fiume. Uno slancio che sembrava frenare e rompersi tra i fusti e le foglie secche delle piante fra le quali durava ancora un po’ frugando forse alla cerca delle pannocchie che erano state raccolte tempo prima.

 Tuttavia non appena le ventate parevano concluse le piante seguitavano a scuotersi a tratti. Quasi avessero conservato negli stocchi rinsecchiti delle spighe e nelle lamine morte delle foglie aliti estremi di vita donante loro gli ultimi sussulti o si muovessero per una presenza invisibile non priva però di effetti tanto evidenti quanto di breve esitante durata. […]. Una segreta inspiegabilità di mosse che ad ogni modo se non smetteva di celare chi ne fosse l’artefice bastava di lì a poco a far sciamare un nugolo di uccelli in un volo sonoro come lo scricchiolio delle foglie accartocciate all’arrivo d’una ventata repentina.

 […] Una rilassata distensione che all’avvio del giorno un vento leggero sembrava carezzare. Un tocco lieve sufficiente a svelare e riconoscere, in un inatteso slargo più rado di piante, una figura umana avanzante ora assai veloce come se volesse il più alla svelta possibile o dovesse per forza raggiungere di nuovo la zona più fitta del campo di mais nella quale trovare riparo da un’insidia di cui, a dire il vero, non parevano esserci le minime avvisaglie.

 […] Una striscia di terreno abbandonata a sé stessa che invece doveva nascondere bene buche e sporgenze se poco dopo principiavano anche le cadute che, man mano cercava di aumentare la corsa, si facevano più frequenti e cariche di dolorose conseguenze le quali ne indebolivano le forze rendendo più incerta la veloce andatura e l’inseguimento spasmodico di quello che non solo si proponeva di raggiungere ma a cui non poteva più rinunciare e che, nonostante tutto, doveva inevitabilmente avvicinarsi. Anzi, non poteva essere che prossimo quando l’aria era strappata da un colpo di fucile subito dopo seguito da un altro, come se il primo avesse mancato il bersaglio o il secondo fosse stato il colpo di grazia, ai quali succedeva il volo spaurito di uno stormo di uccelli, ancora più folto di quello del giorno avanti, che si scioglieva in lontananza mentre dalla piazzola in punta all’ospedale si era sollevato ronzando via un elicottero.

 […] Per capire cosa fosse davvero successo, non ci sarebbe stato altro da fare che attendere in qualche punto lo sgocciolio di sangue dalle foglie al gambo secchi di qualche pianta di granturco o – passato inudito il tonfo nell’acqua del fiume – il ritorno a galla da qualche parte del corpo buttato, vivo o morto che fosse, dall’elicottero che già si allontanava in direzione opposta a quella degli uccelli oramai spariti.

 

(da LA FESTA)

 Nel meriggio invernale le razzate di tramontana parevano spingere i rintocchi penitenziali delle campane cittadine fino a risuonare nella conca del fiume dalla quale era appena prima rimontato, addentando con i cingoli il greppo molle, l’escavatore nell’argine dove fra due ponti della città […] si svolgeva l’annuale festa popolare seguente il “martedì grasso” e inaugurante le “settimane di magro”. Una singolare fine di carnevale ai cui fantocci sembravano rimandare perfino il paio di manichini di plastica dalle nude fattezze umane che – forse zavorrati o legati al fondo – galleggiavano in differenti posture e in punti diversi del fiume. Una ricorrenza festosa aperta […] dal sopravvenire ovattato d’una quaterna di mongolfiere ognuna delle quali, giunta dal sorvolo d’una delle antiche porte della città, silenziosamente planava e atterrava a turno nel letto fluviale accolta ogni volta dalle esclamazioni di meraviglia dei piccoli e dai battimani dei grandi. […] Un lento e cadenzato approdo di multicolori palloni – ciascuno poi ancorato con funi a ganci ficcati tra i sassi e la rena – scandito e rotto anche dagli omaggi musicali della banda comunale che accompagnava alla festa la gente. […] tra gli olezzi e i fumi dei banchi di cibarie, fra l’attraente schiera chiassosa e sfavillante dei giochi tra i quali, in uno spiazzo libero della riva sinistra, spiccava una figura tanto lugubre quanto bizzarra era la scena di cui lei era al centro. Ovvero un “tempo di digiuno” – succeduto all’estremo sussulto del carnevale morto ma non vinto dal trionfo quaresimale – ben impersonato da quel funereo essere mascherato. Una brutta donna secca in abito liso e sgualcito avanzante sulle rotelle e il barchino di legno tinto trainato da una coppia truccata da frate e da suora e spinto da un’altra travestita da volpe zoppa e da gatto cieco. Non solo, ma seduta a poppa essa sventolava una grossa argentea aringa di cartone appesa allo spago d’una sottile e flessa canna di bambù.

 Un vessillo instabile e ridicolo che pareva agitarsi e salutare l’arrivo di lì a breve di due elicotteri gialli con le insegne rosse atterranti poco dopo nelle piazzole di rena battuta da cui, finché le pale non si arrestavano, si alzavano sfrangiati velari di polvere. E solo quand’essa si diradava interamente, da un elicottero scendeva un assistente in tuta blu scuro il quale al megafono spiegava a tutti che l’esercitazione di salvataggio si sarebbe sviluppata in due fasi distinte svolte ognuna da un elicottero e da un equipaggio differenti.

 […] Al primo alto passaggio del velivolo – che ora non sembrava più attrarre una bonaria curiosità ma istillare una maldisposta inquietudine incrinante l’aria scanzonata della festa sul fiume – il vermiglio secchio impermeabile mancava il bersaglio mobile del manichino in ineluttabile avvicinamento al pericoloso stroscio. […]. Così quando, poco prima che la corrente si facesse irrimediabilmente più precipitosa, il velivolo riusciva finalmente a raccattarlo ai battimani scroscianti s’appaiava un’ovazione che era anche un unanime sospiro di sollievo. Tanto che la lenta risalita del cavo fino alla scomparsa del secchio all’interno della cabina era perfino scandita dallo sventolio delle bandierine nazionali e dall’accompagnamento dell’inno patriottico da parte della banda, salutanti tutti la coppia di elicotteri i quali, all’accendersi dei lampioni pubblici e delle lampade dei banchi e delle attrazioni sugli argini, si allontanavano. Un po’alla volta come di lì a poco – tagliate i piloti le funi che le legavano al renaio – facevano ad una ad una le quattro mongolfiere.

 La festa pareva comunque riprendere vigore […] Ed era forse per questo che nessuno sembrava accorgersi del rumore né della vista di altri due elicotteri assai differenti dai primi sia nelle dimensioni più grandi sia nella forma corazzata e perfino nel cupo colore grigio piombo. Malgrado ciò tutti parevano aspettarsi da loro l’esibizione conclusiva, a maggior ragione quando tutt’e due, sganciando simultaneamente delle fiaccole striate variopinte, sembravano annunciare un’esecuzione originale dei fuochi d’artificio che solitamente chiudevano ogni anno la festa sul fiume.

 Stavolta però non era così. Mentre uno lanciava un paio di razzi sul primo ponte, l’altro ne scagliava subito dopo una coppiola sul secondo facendoli saltare ambedue in aria e in acqua insieme a coloro che vi erano ancora sopra. […]. E gli schizzi in successione […] sarebbero parsi a chiunque […] richiamare quelli di bombe di profondità d’altri tempi eppure ancora capaci di far risalire alla superficie, nell’unica illimitata distesa planetaria odierna, gli stessi resti dei medesimi relitti umani.

 

 

(da BRIVIDI D’ACQUA)

[…] brividi sulla pelle d’acqua

rinculano vani il fiume

alla fonte d’anni pesa e lontana […]

 

(da ARNO)

L’antichità del nome — Arni — è attestata da un’epigrafe umbro-etrusca ritrovata quasi trent’anni fa ai confini dell’Alta Valtiberina con il Casentino, esattamente a Toppole nelle vicinanze di Anghiari. L’importanza è invece testimoniata dal termine Arniesi con cui in un libro stampato a Venezia alla metà del secolo XVI continuavano ad essere chiamati i Toscani.

 […] Nel suo antro la maga Circe, secondo i versi danteschi del Canto XIV del Purgatorio, avrebbe invece trasformato i Valdarnesi di allora in animali bruti e feroci. Incantati, come gli abitanti attuali di ogni altra «misera valle» degna di perire, dalle menzogne fitte e ronzanti (arnie) dei falsi “teleoracoli” d’oggi. Indifferenti ai rari e preziosi responsi distillati a caro prezzo dai poeti veri, unici indovini sicuri rimpiattati fra gli spigoli delle loro “celle di rigore” o negli anfratti delle loro buie miniere aurifere.