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Epifanie fiorentine


Questo articolo, pur travalicando il proprio titolo, è indirizzato a chi visita Firenze il giorno dell’Epifania (ovviamente ciò non esclude che possa avvalersene chiunque altro e in altri momenti dell’anno). Ovvero a colui il quale, stanco dei globali travisamenti altrui ma non dei propri travasi personali, volesse regalarsi una befana utile a scansare l’inesauribile carbone dell’ignoranza che, seguitando ogni giorno ad alimentare il falò delle vanità e il fumo dei camini della bruttezza, nemmeno la scopa della "vecchia" che la cavalca sembra riuscire più a spazzar via.

Al suo posto può provarci però il visitatore irregolare che – pur munito di canonica guida ma eludendo le processioni alla Galleria degli Uffizi o alla Galleria dell’Accademia – punta ad andare nella Chiesa di Santa Trinita. Ossia laddove, nella Cappella Sassetti, di fronte alla pala d’altare dell’Adorazione dei pastori di Domenico Ghirlandaio gli è impossibile non arrestarsi di fronte a figure e scene dipinte evocanti fatti e persone della vita comune. In tal senso non può quindi apparire assurdo accostare il gesto di San Giuseppe – la mano tesa sopra la fronte a guardare distante – alla memoria di ben altra compagnia rispetto al regale corteggio dei Magi. Magari quella della massa di persone indistinte incontrate dal visitatore nelle vie cittadine, al contrario degl’inconfondibili pastori dell’Adorazione dipinti sotto l’influenza decisiva dell’avvento a Firenze del Trittico Portinari di Hugo van der Goes. Un’apparizione sconvolgente […] quasi un’epifanica razzata tergente lo sguardo ormai estraneo a quelli che oggi – seduti a mangiare e a bere in qualche paninoteca – non possono affatto somigliare ai pastori della Cappella Sassetti. Né le loro futili e rumorose chiacchiere richiamare il canto del cardellino dipinto dal Ghirlandaio su un pezzo di sarcofago rotto, visto come quell’uccello sia legato aneddoticamente alla passione di Cristo durante la quale si sarebbe ferito, insanguinandosi il capo, per togliergli con il becco una spina della corona o uno dei chiodi della croce. Visione questa che, uscendo il visitatore dalla Chiesa di Santa Trinita, non può che spingerlo verso altre "passioni" in cui la crocefissione è al centro dell’immagine dipinta oppure è essa stessa l’oggetto scolpito. Come nel caso della Trinità  masaccesca e del Crocefisso brunelleschiano della Basilica di Santa Maria Novella dove egli ha la possibilità di godere un altro fatidico momento innovativo, ben prima di quello indotto dall’avvento del trittico di Hugo van der Goes, del rinascimento fiorentino.

Malgrado l’ingresso appaia immediatamente respinto dall’irreale allungarsi – dovuto al concreto e graduale declino verso l’altare delle loro campate – delle tre navate, è inevitabile risalire quella centrale. Fin quasi sotto il Crocefisso di Giotto, pendulo a spartire la navata e anche l’arte che mai prima d’allora aveva espresso un Cristo tanto uomo. […] Ma le tardogotiche novità stilistiche – che avevano costretto addirittura Giotto ad ampliare in corso d’opera la struttura stessa del supporto di legno del Crocefisso – se riverberano ancora in quello di Donatello in Santa Croce sono invece superate dall’essenziale bellezza del Crocefisso  ligneo scolpito da Filippo Brunelleschi ed esposto nella parete di fondo rivestita di marmi bianchi, neri e di porfido rosso nella Cappella Gondi. Una scultura che pur sfrondando lo statico naturalismo del modello giottesco e l’espressività drammatica di quello donatelliano difficilmente avrebbe potuto rimuoverli visto che si trattava pur sempre dell’immagine del Figlio di Dio crocifisso che imponeva semmai di ricomporla in una misurata e severa armonica perfezione delle forme e dei calibrati dettagli anatomici. 

[…] In realtà ogni particolare e tutti gli elementi di quella scultura dipinta paiono indiscutibilmente appartenere alla rielaborazione razionale di un rinnovato e più vero ordine dell’universo e delle cose della vita. […] Non per nulla l’uomo messo al centro del mondo umanistico-rinascimentale in Masaccio sembra restare il bersaglio della vita sulla quale punta costantemente il mirino della realtà quotidiana vistosamente scolpita nei “blocchi” di tutte le figure dipinte. Personaggi di uno stato drammatico di cui la monumentale struttura pittorica erede dell’architettura classica – passata attraverso l’idea e la pratica di Arnolfo di Cambio e di Nicola Pisano – pare metterne in risalto, quasi calcandola sui gradini, l’umile ferma presenza. Una caratteristica che, pur esaltata dall’essenziale esattezza compositiva e dalla simmetrica parsimonia cromatica, non sembra però il solo mezzo e l’unica dote su cui l’uomo – posto da Masaccio per la prima volta nell’arte sul medesimo piano dei “mediatori” divini dei quali gli oranti terreni hanno le stesse dimensioni – può e deve fare affidamento per mettere in scena e svolgere l’azione drammatica della sua esistenza. Una tragedia qui ricordata e ribadita dallo scheletro e dall’iscrizione del sarcofago schiuso (a cui paiono rimandare, se non opporsi con la loro replica prospettica e l’isolata solenne presenza eretta del Padre Eterno, perfino i cassoni del soffitto “in fuga”) sui quali poggia peraltro tutta la struttura pittorica. […] Una supremazia alla quale sembra riferirsi Maria con quel gesto della mano destra, così ratto da costringere addirittura la sinistra a trattenere un lembo dell’abito, che pare infrangere la severa solenne compostezza, alla quale non può certo essere estranea la Madonna, della scena dipinta. Anzi un cenno simile risulta essere l’attestazione evidente della manifesta sconfitta e, di conseguenza, la vistosa accettazione della resa a quello che è pur sempre ai piedi di suo figlio. Oltretutto condannato per la salvezza di tutti coloro i quali non possono certo sfuggire al medesimo inevitabile destino, compreso il visitatore che poi raggiunge la cappella maggiore della basilica.

Qui, nella Cappella Tornabuoni, è esposto il più grande ciclo di affreschi fiorentini di Domenico Ghirlandaio di cui forse il più interessante è l’Adorazione dei Magi giacché il confronto con quella vista in precedenza in Santa Trinita permette al visitatore di scoprirne non solo la differente titolazione ma sopra tutto di valutarne la difforme resa pittorica e, quindi, il diverso valore artistico. […] Perciò può accadere che la visione isolata della bella effigie di Giovanni Tornabuoni non sia sufficiente a trattenere ancora il visitatore nella cappella maggiore di una basilica dove nel giro di sessant’anni i fiorentini sono passati dalla sorpresa dell’ invenzione del “muro sfondato” dipinto da Masaccio alla curiosità esotica della giraffa affrescata da Ghirlandaio.

La delusione può quindi essere davvero cocente e a placarla non basta certo all’interessato visitatore deluso sapere che il Ghirlandaio è seppellito nel «terzo avello di destra della facciata della chiesa». Tutt’al più, uscendo da Santa Maria Novella e svoltando per via degli Avelli, egli può sedere sul marmo di una panchina a rammentare o a rileggere ciò che è avvenuto, secoli fa e per sempre, proprio in quel luogo dove Giovanni Boccaccio ha ambientato e raccontato uno dei momenti principali della nona novella dell’ottava giornata del suo Decamerone. Non foss’altro per godere o rinnovare, lui da solo, la caustica allegria con cui l’ingegno degli artisti spesso si fa volentieri beffe della dabbenaggine dei sapientoni d’ogni tempo.

 

 

28 XII 2017