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Adattamento e inettitudine

Sul canino della mandibola sinistra dell’Uomo di Lonche (dal nome della città slovena dove il fossile è stato trovato e da allora custodito nel Civico Museo di Storia Naturale di Trieste) qualche anno fa è stata scoperta e datata, tramite tecniche d’indagine particolarmente sofisticate, un’otturazione dentaria fatta con cera d’api e risalente a circa 6500 anni fa. Poiché il reperto rinvenuto in una grotta dell’altopiano carsico-istriano è presente fin dal 1911 nelle collezioni del museo che fino al 2010 era nello stesso palazzo della Biblioteca Civica non è improbabile che Italo Svevo, come si sa assiduo frequentatore serale della biblioteca, l’abbia visto. Mentre non ha potuto ovviamente conoscere né la cura odontoiatrica né gli strumenti tecnici che più o meno cento anni dopo l’hanno rivelata.

Ad ogni modo, come si vedrà, sia il dente che l’otturazione possono aiutare ad approfondire la comprensione, perpetuando il godimento della lettura, dell’opera letteraria di Svevo e, in particolare de La coscienza di Zeno […]. D’altra parte […], ritornando al traslato odontoiatrico utile anche in seguito trattando più specificamente dell’otturazione, nel momento stesso in cui il dente testimonia l’adeguamento ad un regime alimentare diverso il danno patito ne dimostra invece l’evidente insufficienza. Un difetto che, fuori dal senso figurato ma entro quello d’una concreta figura letteraria, costituisce la cifra caratteristica dell’inetto (il titolo dato da Svevo e non dall’editore a Una vita (1892) era in origine Un inetto). Un personaggio che, restando nell’Europa ottocentesca e muovendo dall’Oblomov gonciaroviano, dal Čulkaturin turgeneviano e dal Myškin dostoevskijano, ha percorso e segnato tanta letteratura, anche italiana, del Novecento. O, perlomeno, quella migliore capace di occuparsi e di saper bene interpretare l’autentica condizione di un uomo escluso dalla vita pratica quotidiana quanto espulso dalla resa produttiva del mondo. […] Così come accade ne La coscienza di Zeno in cui il protagonista è incapace di adeguarsi, come il dente succitato agli effetti della presunta dieta differente, agli obblighi del mondo industriale. Tuttavia è proprio questa inettitudine individuale all’adattamento sociale a far tendere Zeno verso ciò che non potrà mai raggiungere […] ma che gli permetterà, regalandogli un irriducibile stato di malcontento, di sopravvivere. […] In realtà l’inetto sveviano è un animale vincente ma disgraziato. Della bestia infatti non ha la funzionale determinatezza delle facoltà organiche, dell’uomo possiede e patisce invece l’insoddisfazione di tale mancanza i cui effetti riverberano in modo differente sull’ordinaria realtà materiale giornaliera e su ogni facoltà mentale straordinaria. A questo proposito si possono utilmente accostare […] le conclusioni dei ragionamenti del brano di Una vita in cui si afferma che il cervello è per le primarie funzioni di sopravvivenza un «essere inutile» con gli esiti di alcune Operette morali leopardiane. In particolare con quelli del Dialogo della natura e di un’anima nel quale con intristito sdegno si ribadisce lo stretto legame fra la mediocrità e il successo come tra la grandezza e l’infelicità.

Tuttavia, malgrado l’affermazione personale e il riconoscimento sociale siano raggiunti tramite la miseria mentale e la nobiltà intellettuale sia d’impaccio nella società, sia l’uomo leopardiano che quello sveviano non rinunciano a pensare e con ciò a sopportare il dono del dubbio e il peso del malcontento. […] Una perenne insoddisfazione che però, lo ripeto, non è solo uno dei “segni particolari” dell’inetto letterario ma anche quello che permette all’uomo infelice di mantenere intatte le facoltà di poter superare il suo stato d’irriducibile angustia.

[…] Ma se l’uomo moderno non ha ragione di curare il pregio del suo male ha invece la possibilità di ridurre, se non addirittura superare, la propria “insufficienza biologica” attraverso la tecnica. Ossia tramite la creazione di quegli strumenti tecnologici – detti da Zeno «ordigni» dei quali fa parte anche l’otturazione preistorica – che non solo consentono all’uomo d’affrancarsi dallo sforzo dell’evoluzione umana, ma il cui possesso e la cui diffusione permettono alla specie, se non di migliorare sé stessa privandola della selezione naturale, d’imporre la sua strategia di sopravvivenza […]. E così il risultato, sempre più malefico ma anche per vari motivi via via più condiviso, è quello secondo il quale un mezzo come la tecnica nata per essere al servizio dell’uomo ne diventa talora vera e propria sevizia. O perlomeno una servitù per lui inevitabilmente irrinunciabile e rapidamente irrimediabile, tanto da nutrire quel «malcontento» che lo allontana ancor più dalla sua mente guastandone spesso il corpo fino a condurlo alla propria estinzione.

Unico stato, la morte, su cui nemmeno la tecnica (lo dimostra ne La coscienza di Zeno la “presenza disarmata” del dottore di fronte all’agonia di Guido Speier) ha alcun potere. Ciò nonostante se non può avere il sopravvento sulla morte, la tecnologia «invero utile e perfettamente sana» può se non altro limitare le crescenti sofferenze umane della vita, almeno di quella degna di tanto nome.

01 X 2017